Monograno Felicetti

Gentile {NOMEUTENTE}
E’ stato un caso, ma chi ha aperto il congresso edizione numero 12, Davide Scabin, domenica mattina in Auditorium, è lo stesso chef che lo ha chiuso martedì sera 8 marzo perché Identità di pasta quest’anno contemplava nove lezioni, una più del solito. Così il torinese attaccava in Sala Blu quando negli altri spazi tutto si avviava alla conclusione.

L’ho potuto seguire con attenzione e quando Davide ha confessato che «più di così, sulla pasta non so fare» mi è venuto un brivido. Da una parte ammiro chi è sincero, e denuncia di avere terminato un lungo processo creativo che ha rivoluzionato il mondo della pasta, ma dall’altra mi auguro che si tratti solo di una pausa per capire il presente e tracciare nuovi percorsi verso il futuro.

Quando un campione o una squadra, nello sport come nel lavoro e nella vita, hanno vinto tutto, arrivano quei momenti così, tendenti al grigio, piccole nebbie che nascondono l’orizzonte e portano a pensare che non vi siano altri traguardi, altre motivazioni per restare concentrati e insistere. Poi basta un raggio di sole, un nuovo profumo, un nulla per rinascere.

Paolo Marchi
Testi di Sonia Gioia e Carlo Passera, foto Brambilla/Serrani
 

Cos'ho imparato dalla giornata della pasta

Torno davvero felice dalla settima edizione di Identità di Pasta al congresso di Milano. Senza retorica, ho apprezzato davvero le lezioni di ognuno dei nove relatori perché hanno dimostrato, se ce n’era ancora bisogno, che la pasta è un universo illimitato e sconfinato, sia che uno si cimenti sul lato innovativo sia su quello tradizionale della materia.

Due momenti mi sono rimasti particolarmente impressi. Ma prima lasciatemi ringraziare tutti i numerosi partecipanti della giornata, i ragazzi del backstage - un’organizzazione straordinaria – e soprattutto Eleonora Cozzella, la presentatrice di sempre: se non ci fosse lei, l’intera giornata avrebbe meno valore. E ormai ha una resistenza tale che sarebbe pronta anche per la maratona di New York.

I due momenti, dicevo. Ho particolarmente apprezzato il Pacchero stracotto messo nello stracotto di Alessandro Negrini. È riuscito a nobilitare una pasta scotta: la consistenza era sorprendentemente buona, molto gradevole, simile a quella del purè di patate. E infatti lo stracotto ci stava da dio assieme.

Il secondo momento è legato alla lezione di Matias Perdomo: “In Italia”, ha osservato giustamente il cuoco uruguiano, “quando ti chiedono la pasta, devi servirne una quantità apprezzabile, sennò ti guardano male”. E infatti subito dopo si è presentato con una zuppiera gigantesca, la famosa “cofana”. Dentro c’era in realtà solo una forchettata, ma mi ha fatto riflettere su questa verità sacrosanta. E sul fatto che chi ci osserva da una cultura distante è più bravo a vedere cose di cui noi italiani non ci accorgiamo, pur avendole sempre sotto al naso.

Riccardo Felicetti, nella foto, con Eleonora Cozzella e Carlo Cracco
 

Carlo Cracco: tra maccheroni e ravioli

Ad aprire le danze quest’anno è stato Carlo Cracco. In Sala Blu, il cuoco vicentino ha confessato che per lui la pasta non è un primo amore, ma un sentimento nato poco a poco, mutuato dall’apprendistato nelle cucine di Gualtiero Marchesi. Per un veneto innamorato del riso e le risaie insomma, questo piatto di Maccheroni, cime di rapa e lentisco (foto) è una conquista, una scoperta. A fine lezione ha sentenziato: la cima di rapa sta alla pasta come Marilyn sta alla bellezza e Audrey Hepburn alla grazia, nate per starsene cuore a cuore nello stesso piatto.

Il giorno prima, aveva portato sul palco dell'Auditorium un suo vecchio raviolo (vedi foto sotto), «che preparo da 25 anni, un bottone». Usa come ripieno della mela cotogna candita senza zucchero (tre ore in forno) e ridotta in purea. Poi corbezzoli a dare acidità, due tipi di castagne (normale e d’acqua, rosolate), polvere di alloro, scorzonera e fette sottili di carne di cervo di Zivieri. I ravioli sono cotti in un’acqua aromatizzata con rami di ginepro, serviti sopra un fondo ottenuto dalle ossa del cervo, con un po’ di cioccolato. Nota di affumicatura finale, al legno di ginepro.
 

Negrini e Pisani: paccheri in stracottura

Forse non finirà negli annali delle frasi celebri, ex aequo con gli aforismi di Oscar Wilde, ma di certo ha fatto il giro del web e in qualche modo ha svelato una verità nascosta in fondo al cuore, quello degli italiani certamente: «Se in un ristorante ti servono 18 piatti, e fra questi nessuno di pasta, tutto il resto è un antipasto». Più o meno così Alessandro Negrini, l’eresiarca che a proposito di libertà, si prende quella di servire pasta non scotta, ma stracotta, spalancando la porta dell’errore accidentale e portandolo alle estreme conseguenze, come fa un curioso cronico.

Le provocazioni del cuoco de Il Luogo di Aimo e Nadia, che divide il posto ai fornelli con Fabio Pisani, in qualche modo sono quelle a fondamento di Identità di Pasta, che quest’anno compie 7 anni, ovvero il riconoscimento di un posto sacro occupato dalla pasta non solo nella dieta mediterranea, ma nel patrimonio genetico, nel super-io degli italiani.

Alessandro Negrini, sul palco senza la metà di se stesso, Pisani (separazione episodica naturalmente). I mattatori de Il Luogo di Aimo e Nadia hanno presentato al pubblico assiepato nella Sala blu i loro Paccheri in stracottura, sessanta minuti netti, ripieni di coda di bue grasso di Carrù e salsa, che hanno saputo guadagnarsi il plauso di Felicetti, che sul punto vale quanto una benedizione. Il presupposto affinché l’esperimento riesca è una pasta di straordinaria qualità, poi la stracottura esalta il “sapore del grano”.
 

Tra l'Abruzzo e l'Oriente: Nicola Fossaceca

Ritorna nei tempi di cottura più canonici lo spaghetto di Nicola Fossaceca, cuoco ai fornelli de Al Metrò di San Salvo (Chieti), ristrutturato di recente. Fra “libertà o trasgressione?” l’interrogativo che ha dato vita alla lezione del giovane chef, la risposta è un punto di equilibrio a metà strada, che si traduce in Spaghetti cotti in acqua di mare, sauté di vongole con salsa all’aglio rosso di Sulmona, alga verde e gambero.

E' un piatto che sa di «primavera, estate ma anche di quelle giornate d’ottobre quando la folla di turisti ha abbandonato Chieti», lasciando il cuoco in un paesaggio zen, a riposo forzato (come spesso accade a Sud).
 

Camanini: Cacio e pepe cotta in vescica

Le sacre scritture della gastronomia francese parlano di Volaille de Bresse en vessie, ma di Cacio e pepe cotta in vescica – quella con cui Riccardo Camanini ha lasciato col fiato sospeso l'uditorio di Identità di pasta – no, non si era mai parlato prima d'ora.

"L'idea nasce dal desiderio di creare un contenitore biologico nel quale cuocere qualcosa, non è niente di inventato – si schermisce lo chef del Lido 84 a Gardone - è tutto scritto nella storia, nelle pagine che raccontano di conigli cotti in maiali interi, così come nella budella degli agnelli e delle mucche". I numeri di questo piatto, dal concepimento dell'idea all'impiattamento, la dicono lunga sulla precisione millimetrica per l'esecuzione del piatto a regola d'arte: tre mesi di studio, oltre sessanta prove, 80 grammi di acqua salata al 3 per mille ogni cento grammi di pasta. La difficoltà vera? Inserire tanta acqua quanta la pasta dovrà andare ad assorbirne, non un goccio in più.

"Tutti gli ingredienti vengono inseriti a crudo nella vescica – spiega il cuoco di Gardone Riviera -, successivamente inserisco acqua salata, pecorino a buccia nera, olio extravergine e pepe". La vescica "ripiena" viene dunque chiusa con uno spago e immersa in un pentolone di acqua bollente, durante la cottura resta a galla come un palloncino, che ogni tanto va shakerato per non creare aderenze fra gli ingredienti.

Risultato? Se un Rigatone Felicetti richiede undici minuti di cottura, con la cottura indotta in vescica ce ne vorranno trenta: "La cosa straordinaria è che si ottiene un dente regolare su tutta la pasta perché non c'è un contatto diretto con l'acqua. E l'amido non viene disperso ma rimane all'interno", conclude Camanini con una punta d'orgoglio per questo piatto che è un concentrato di gusto, di tradizione, di storia e di futuro anteriore.

Secondo piatto presentato a Milano: Tagliatelle alla mimosa, dolce (e irriverente) omaggio alle donne, festeggiate del giorno.
 

Fuori da ogni dogma con Matias Perdomo

Nel pomeriggio, ci voleva uno straniero per farci andare oltre il nostro usuale concetto di pasta, condita di abitudini e pregiudizi. Ci voleva anzi un hombre dei due mondi, Matias Perdomo, del milanese Contraste.

Perdomo lavora da 7 anni a un suo concept del più tradizionale piatto italiano, quello senza cui nulla ha un senso (di certo non un pasto). Andando sempre più a fondo e allontanandosi sempre di più dai dogmi del primo piatto da inforchettare e malgrado ciò facendosi sempre ispirare dai grandi classici (pasta e vongole, pasta e cozze, pasta e piselli, del quale preserva il sapore) lo chef sudamericano ha esplorato leggerezze, consistenze, utilizzi alternativi: Past food, Donut alla bolognese, Pastigiana, pasta reimpastata e usata come interno o addirittura grattugiata sopra.

Tutto per approdare alle ultime idee: una pasta al ragù che diventa ologramma dopo essere stata abbattuta, filtrata e resa liquida. Poi una Cacio&pepe (hai detto niente) liofilizzata e servita in un brodo di foglie e grani di pepe e buccia di pecorino.

Infine l'ultimo tabù da abbattere, quello della quantità, con una Ajo&ojo servita dentro un nido di pasta resa quasi cialda, a simulare un piattone che soddisfa l'occhio salvando le apparenze ma non appesantisce. Troppo facile, davvero troppo, parlare solo di provocazione.
 

Cristina Bowerman: pasta cruda (per modo di dire)

L'ultimo concetto con cui chiudiamo il report sulla lezione di Perdomo calza a pennello anche a Cristina Bowerman. Abbiamo visto una pasta stracotta, perché non una cruda? «Per ora è una provocazione…» mette appunto le mani avanti la chef pugliese. Già, per ora: perché gli sviluppi sono imprevedibili.

Racconta: «Pensavo a come dare aromaticità alla pasta prima o durante la cottura, così l’ho messa in infusione in una bisque per 48 ore, in frigo. Poi l’ho saltata in padella, ma per pochi secondi, e comunque sotto i 60°C», prende colore, rimane un piatto crudista, ma la notizia è questa: è già un piatto. Funziona!

«Una pasta non cotta può esistere?» si è chiesta la Bowerman. Ha cercato risposta: «Ho chiesto lumi agli scienziati, ho approfondito il tema relativo alla reidratazione degli amidi». Quel che è certo è che è buona e non fa male. Che vantaggi può avere? Intanto, l’indice glicemico è più basso. Dunque la pasta è più digeribile?» Non esistono studi in materia, presto verranno, keep in touch.
 

Peppe Guida: Spaghetto con limone e panna

Più classico l’intervento di Peppe Guida dell'Antica Osteria Nonna Rosa di Vico Equense (Napoli), uno che comunque si merita d’essere presentato così da Eleonora Cozzella, che detta magistralmente tempi e parole della giornata: «Non si può dire di conoscere la pasta, se non l’avete mai mangiata da lui».

Lo chef reinventa una ricetta d’antan per turisti in Penisola sorrentina, lo Spaghetto con limone e panna. Lui prende delle scorze dell’agrume e le mette in infusione tutta la notte in acqua calda, poi riporta a bollore e vi cuoce degli spaghettini, che poi condisce con poco provolone del Monaco, timo e grattugiata finale di limone verde. Pubblico in visibilio post-assaggio.

Secondo capitolo: «Calle con cipollotto, cacio e 'nduja, una rivisitazione piuttosto particolare della Genovese. Sono entrambi piatti che cercano di preservare il concetto di sostenibilità, per salvaguardare le generazioni che verranno».
 

Ciccio Sultano: sanapo e dintorni di mare

Penultimo intervento, quello di Ciccio Sultano che ha parlato di pasta, ma anche di temi più ampi (e non slegati dal tema della sala) come identità, responsabilità, appartenenza. Vale a dire: «”o, cuoco, siciliano”, o anche la responsabilità del cuoco di salvaguardare la propria identità e quella di ciò che lo circonda, a cominciare appunto dalla pasta.

Per Sultano anche nella libertà (di interpretazione di un prodotto, in questo caso) ci deve essere rigore: «Vedere un cuoco italiano cucinare la pasta con i licheni per me è disarmante». Nascono così gli Spaghetti con il succo di sanapo (erba selvatica che cresce in Sicilia, della famiglia delle senapi) con tuma fatta da sé, bottarga di tonno e la sua famosa salsa Moresca Taratatà.

E se si prende la libertà di fare un'"Amatriciana” al Duomo a Ragusa, ci mette il mare di mezzo, con la seppia e tutti i suoi scarti, ad affiancare la parte ludica a quella golosa.
 

Davide Scabin: pasta condita con pasta

Il gran finale della settimana edizione di Identità di pasta se l'è preso tutto Davide Scabin. Lui è il punto di riferimento imprescindibile per tutto quanto riguarda la “nuova pasta”, ovverosia le tecniche inedite per trattare l’alimento più tradizionale. Dagli Spaghetti pizza Margherita al soufflé di pasta, dalla cottura in pentola a pressione della scorsa Identità Milano alla Pasta sushi di Londra.

Questa volta parte un po’ polemico: "Mi sono stufato di vedere persino molti chef che non sanno cuocere la pasta. Se c’è un filino di bianco al suo interno, non è “al dente”, ma cruda". Poi una proposta delle sue, "lancio un’idea, non una ricetta": la pasta condita con la pasta, "che va a rafforzarne profumi e aromi".

In sostanza, si tratta di portare a stracottura una pasta – mettiamo, una semplice burro e salvia – per poi omogeneizzarla e usare la crema così ottenuta per condire una seconda pasta, «che saprà più marcatamente di grano». Di grano buono, come quello targato Felicetti.

«Più di così, sulla pasta non so fare», confessa Scabin, dichiarando esaurita la sua vena creativa sull’argomento. Riccardo Felicetti in platea sogghigna: «Dice così tutte le volte. E poi…».
 

I Ravioli di mela cotogna di Carlo Cracco

Ravioli affumicati di mela cotogna e corbezzoli, crudo di cervo e castagne, piatto presentato da Carlo Cracco in Auditorium, nella lezione che ha aperto la giornata di lunedì.
 

I Capelli d'angelo di Lionello Cera

I Capelli d'angelo con succo di canocchie e carote, cappetonde, lucerna e acetosella di Lionello Cera dell'Antica Osteria Cera di Campagna Lupia, tra Venezia e Chioggia. Un'entrée (e non un primo piatto) che ha stregato la platea di Identità di Mare.