Newsletter 473 del 05.02.2016
 
 
Gentile
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  La prima giornata di Identità Golose 2016 non si concluderà in Auditorium con una classica lezione di cucina. Il 6 marzo saliranno sul palco in sei e nessuno chef. Renato Bosco, Enzo Coccia, Massimo Giovannini, Simone Padoan, Franco Pepe e Gino Sorbilllo sono infatti pizzaioli. Però è anche vero che il mondo della pizza vive un fermento mai conosciuto prima, con i protagonisti sempre più consapevoli del loro valore al punto da vivere il sogno di essere riconosciuti chef. E a cosa ambiscono gli chef? Alla stella Michelin. E allora perché i cuochi sì e loro no?

Da questa domanda, che sempre più spesso risuona dal Veneto alla Campania, è nata l’idea di riunire sei pizzaioli di sicuro valore per capire come stanno le cose, se siamo davanti a una giusta ambizione o a un desiderio senza autentiche fondamenta. Sognare è bello e giusto, ma chi sogna deve anche avere ben chiara la strada che sta percorrendo. Questo per evitare sorprese negative. Pizza e pizzaioli meritano di essere premiati dalla Rossa, ma guai a mettersi davanti al forno pensando più agli ispettori che ai clienti. Lasciamo questo errore ai cuochi.

Paolo Marchi

 
     
     
     
     
 
S.Pellegrino Young Chef 2016, si parte
 
     
 

La line-up di cui sopra – da sinistra a destra, Davide Oldani (D’O a Cornaredo, Milano), Alessandro Negrini (Il Luogo di Aimo e Nadia, Milano), Andrea Berton (ristorante Berton, Milano), Cristina Bowerman (Glass Hostaria, Roma), Fabio Pisani (Il Luogo di Aimo e Nadia, Milano) e Mauro Uliassi (Uliassi a Senigallia, Ancona) – è quella dei giurati italiani che a maggio stabiliranno il nome del cuoco italiano che andrà a giocarsi a ottobre la finale del S.Pellegrino Young Chef 2016, il concorso per il miglior cuoco giovane del mondo, organizzato da Acqua Panna e S.Pellegrino. Abbiamo spiegato tutto nei dettagli ieri, sul sito di Identità.
 
     
     
     
     
 
Fontegro, cresce bene il congresso di Kiev
 
     
 

Seconda edizione a Kiev di Fontegro, congresso internazionale di cucina voluto e organizzato da Anna Zelenokhat e Ekaterina Avdeyeva nello stadio Olimpico della capitale dell’Ucraina. Due giorni di lavori, martedì e mercoledì, in una sala-conferenze sempre piena di persone attente. E, novità rispetto allo scorso anno, questa volta le organizzatrici sono riuscite a dare vita a uno spazio espositivo che al debutto non esisteva. Una dozzina di realtà, da un artigiano norcino a panini di pastrami piuttosto che distributori di conchigliame. Un bel passo in avanti in un momento storico pesante per un paese eternamente percorso da tensioni (eufemismo).

Sei lezioni la prima giornata e sei la seconda. Italiana la presenza più rilevante, fissata nella foto pubblicata. Da sinistra Franco Aliberti, la slovena Ana Ros, Ekaterina Avdeyeva, Cristina Bowerman, Anna Zelenokhat e Davide Scabin. Sul palco con Aliberti pure Lisa Casali in veste di presentatrice. Pubblico silenzioso, ma scatenato a lezione conclusa. Un unico relatore ucraino, Denis Komarenko, contro nessuno nel 2015. Un passo in avanti, ma ha senso dare spazio a chi produce salumi italiani, e chiama il suoi lardo Lardo di Colonnata?

Alle organizzatrici va fatto un monumento perché ai problemi economici e storici della loro nazione, si sommano quelli di una ristorazione che non ha ancora un’autentica forza propulsiva né in direzione della tradizione – quasi un secolo di dominio sovietico hanno piallato tutto – né in direzione dell’innovazione, idem. Non che la prima edizione di Identità Golose avesse il triplo degli stand e dei relatori, 18 in tutto, ma in un paese dove lo stipendio medio è di 200 euro, un invito in più va pesato con attenzione. Non solo: Fontegro è un sogno. Ekaterina e Anna contano di far nascere la figura dello chef-patron senza vi siano ancora dei cuochi prossimi alla fioritura. Claudio Ceroni e io avevamo l’imbarazzo della scelta. Loro no.
pm
 
     
     
     
     
 
Le arancine palermitane alla conquista del mondo
 
     
 

«La mia missione è portare le arancine in tutto il mondo, come hanno fatto i turchi col kebap. Sarò contento solo quando avrò aperto un mio locale a Broccolino», che poi sarebbe Brooklyn, Nuova York. Danilo Li Muli ha l’eloquio fluviale degli entusiasti, temperato però da una bella ironia. Sarebbe però sbagliato non prendere sul serio questo 44enne pubblicitario, figlio di quel Gianni Li Muli che ha esposto anche al Moma newyorkese: perché la sua idea è di quelle genialmente semplici, del tipo «ma perché non ci ho pensato io prima?».

In sintesi: sdoganare l’arancina (con finale al femminile, come si usa a Palermo), renderlo curioso, creativo e fruibile ovunque, per la pausa pranzo dei milanesi o lo spuntino dei romani e oltre. Puntando su due fattori: fantasia e qualità. Dal primo deriva il fatto che nei locali targati Ke Palle – questo il brand – si possono ordinare tipo fast food tutte le varianti classiche, ma anche moltissime creative: c’è quella con cavolicelli, salsiccia e pomodoro secco, il riso cotto nel Nero d’Avola; quella alla Norma, con melanzane, pomodoro e ricotta salata; quella gamberetti e pistacchio. Quelle dolci. Potenzialmente infinite altre, «l’assonanza che si può creare tra i vari sapori è incredibile. Quando aprirò in altre città, via via studierò formule che siano un omaggio anche alla tradizione del luogo».

Per ora Li Muli ha due locali a Palermo, che entro un mese raddoppieranno con un’apertura in zona Politeama e un’altra a Trapani, «ma vogliamo espanderci molto». Il fatto è che le arancine di Ke Palle sono buone, le abbiamo testate: prodotti di qualità, riso Carnaroli, una perfetta croccantezza esterna dovuta a una panatura fatta con una lega di farina e acqua con briciole grossolane di pangrattato, ma non quello industriale, «ci riforniamo direttamente dai panifici».

Le arancine sono prodotte in un unico laboratorio artigianale, poi saranno abbattute con l’azoto liquido per preservarne la qualità, prima del futuro invio in giro per il mondo. Friggitrici particolari consentono all’operatore nel locale di non dover far altro che pigiare un tasto, e il pasto è pronto. Costano un po’ di più che nel classico bar palermitano, dove la media è di 1,5 euro: la qualità si paga, qui si va dai 2 ai 3 euro.

Ma l’idea spacca: «E’ venuta a mia moglie, che è di Praga. “Ma perché non valorizzare queste squisitezze?”, mi chiese». Spesso solo uno sguardo foresto riesce a vedere quello che abbiamo da sempre sotto gli occhi.
Carlo Passera
 
     
     
     
     
 
Bocuse d'Or, Marco Acquaroli alla finale europea
 
     
 

Sarà il trentenne Marco Acquaroli, sous chef di Saverio Sbaragli al Four Seasons Des Bergues di Ginevra, a rappresentare l’italia alla finale europea del Bocuse d’Or, in programma a Budapest il 10 e 11 maggio prossimi. Ha prevalso sugli altri 11 concorrenti alla selezione italiana, conclusasi ad Alba.

La speranza è che possa conquistare uno degli 11 posti riservati all’Europa per la finalissima di Lione 2017, quando in gara saranno 24 alfieri di altrettanti Paesi di tutto il mondo (in lizza ce ne sono una sessantina in totale).

Acquaroli, 30 anni di Sarnico (Bergamo), ha nel proprio curriculum esperienze ai Four Seasons di mezzo mondo, ma anche Geranium di Copenhagen e Piazza Duomo ad Alba. Giocava dunque in qualche modo in casa, essendo la giuria (composta da molti dei bei nomi dell’alta cucina nazionale, da Oldani a Sadler, da Uliassi a Camanini, e poi Genovese, Bartolini, Esposito, Berton, Guida, Parini, Baronetto e tanti altri) quest’anno guidata proprio da Enrico Crippa, mentre presidente del concorso era Giancarlo Perbellini.

Il cuoco bergamasco sembra avere tutte le carte in regola per fare bene. Se n’è accorto Paolo Lopriore, che annovera nella propria carriera il miglior piazzamento tricolore al Bocuse (un quinto posto assoluto nel 1998) e in questi due giorni ad Alba è stato la cerniera tra cucina e giuria: «Dai, che iniziamo finalmente a impegnarci sul serio». Sbaragli, executive del Four Seasons ginevrino, ha altre pallottole di fiducia da sparare: «Conosco Marco da cinque anni: è un grande. Ed è determinatissimo. Ha voluto fare tutto da solo, senza il nostro aiuto. Andrà avanti».

Gli altri premiati della manifestazione di Alba sono Giuseppe Raciti (Premio Europa), Gabriele Furi (miglior commis), Debora Fantini (Miglior ricetta di pesce: erano tutte a base storione) e Francesco Gotti (Miglior ricetta di carne: erano tutte a base cervo).
CP
 
     
     
     
     
 
Un buon trancio di cobia nel nostro futuro
 
     
 

Il cobia, Rachycentron Canadum, è una specie di squaletto che solca gli oceani, nelle acque tropicali. Da noi è un perfetto sconosciuto: ma ancora per poco. I mari sono infatti sempre più poveri di pesci, mentre il consumo aumenta. Così diventa una valida alternativa, presentata ufficialmente anche in Italia da Open Blue, società fondata dal newyorkese Brian O’Hanlon e che oggi gestisce grandi gabbie sottomarine a 12 chilometri dalla riva panamense di Costa Arriba, in piano mar Caraibico: impatto zero, acque pulitissime, ricche d’ossigeno, profonde, con forti correnti che consentono agli ospiti di guizzare quasi felici, un ambiente a bassa densità, ideale insomma per avviare una piscicoltura come si deve.

Tra l’altro, il cobia mette carne così velocemente che neanche il maiale. E ne ha parlato anche il National Geographic, in un articolo del 2014 intitolato “Rivoluzione azzurra”.

Il primo cobia al centro dei riflettori nostrani (ma già ha fatto la sua comparsa nelle pescherie della catena Metro, e altre seguiranno) si è palesato nei locali Convivium Lab-Arte del Convivio della Fondazione Vivante-Jovinelli, una struttura che collabora strettamente con Identità Golose. Presenti, il 26enne Nicholas Sawyer, responsabile di Open Blue per l’Europa, ma soprattutto lo chef Andrea Aprea del Vun di Milano (nella foto).

Uno che di pesce se ne intende, e che ha confermato la qualità del cobia, «ha un gusto ricco, la carne soda. Assomiglia in questo alla ricciola del Pacifico. E’ certo un pesce diverso, al palato, rispetto a quelli del Mediterraneo ai quali siamo abituati. Ma è un’alternativa molto interessante». Gli americani se lo pappano soprattutto sotto forma di sushi e sashimi, Aprea è un fuoriclasse e l’ha valorizzato prima appena scottato al cannello, con cipolla rossa, foglie di rafano e una bombastica spuma alla senape; poi alla pizzaiola, cotto su un letto di sale, con pomodorini seccati, olive nere, foglie di cappero, granella di cucunci, origano ed evo; infine fritto con una salsa agrodolce di aglio, olio, miele e peperoncino calabro.
CP
 
     
     
     
     
 
Palato Italiano, club gourmet con base a Bolzano
 
     
 
Il Palato Italiano è un club gourmet nato a Bolzano da un’idea della famiglia Bertani, imprenditori nel campo dell’ospitalità, che, alcuni anni fa, hanno avuto una visione: creare un network internazionale di cultura italiana enogastronomica e diffondere “quel mondo” attraverso un club di buongustai.

Il club ha una genesi italiana pur con filiali a Tokyo e Miami e offre viaggi di lusso alla scoperta dell’enogastronomia italiana, e.commerce di selezionati prodotti made in Italy, una scuola di cucina con tecnologie d’avanguardia sviluppate con Cisco e Ibm.

Dalla sede attraverso maxi schermi HD si può prendere parte a lezioni di cucina con la Telecooking, corsi culinari, a distanza, sotto la guida del cuoco Filippo Sinisgalli, ex Marchesi Boy: due stanze, tecnologicamente all’avanguardia, accolgono chef e studenti posti davanti a cucine attrezzate. Una sapiente regia fa sentire i partecipanti come se fossero in uno show televisivo.
Cinzia Benzi
 
     
     
     
     
 
Idea: un menu QR code per le foto dei piatti
 
     
 
Contro il logorio del foodblogger moderno, quello che scatta foto precarie ai piatti del ristorante dove mangia e poi posta le mediocri istantanee sui social, non rendendo onore allo chef, giunge un’idea carina dalla Sicilia. Ad averla è stata Pasquale Caliri, chef del Marina del Nettuno Yaching Club di Messina, già giornalista professionista, e l’ha realizzata insieme al fotografo Gianrico Battaglia. I due si sono inventati il “menu QR code”: accanto alla descrizione del piatto e del prezzo viene infatti stampata un’immagine “QR code” che consente agli ospiti di scaricare sul proprio cellulare la foto del piatto in bella risoluzione, e scattata da un fotografo professionista.

«Visto che oramai è una mania quella di fotografare il piatto appena giunto in tavola facciamo almeno in modo che le foto siano altrettanto belle – spiega Caliri - L’esigenza è quella di frenare il dilagare di immagini di scarsissima qualità che inondano soprattutto i social e non rendono giustizia al lavoro e alla scrupolosa attenzione che mettiamo nel confezionare i piatti. Che poi il “QR menu” può consentire agli chefs di poter diffondere, nello stesso modo, anche le ricette filmate dei piatti stessi.
CP
 
     
     
     
     
 
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