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Dovremo aspettare almeno un altro anno prima di vedere una pizzeria premiata dalla Michelin con una stella. E magari nemmeno sarà una di quelle che vanno per la maggiore a livello di critica e di passione. Vero che il caporedattore Italia, Sergio Lovrinovich, non ha la pizza in agenda, però è anche vero che il nome è ben presente in quella di Michael Ellis, responsabile dell’interno comparto guide. Tutto sulla scia dell’apertura ai piatti dello street food in Asia, come ricordato nel sito di Identità.

Lo stesso Ellis, che, lavoro a parte, viene in vacanza in Campania, Ischia, Capri, la Costiera…, gradisce molto la pizza, quella napoletana tradizionale. Ha pure la sua pizzeria del cuore accanto a un gommista di Napoli e chissà se non la si scoprirà il prossimo fine autunno.

Però non bisogna biasimare solo la guida rossa perché non ha dato la stella a Franco Pepe, Enzo Coccia o i fratelli Salvo. Non ricordo in Italia, fino a pochi anni fa, un movimento di opinione a favore delle pizzerie. Le stesse guide italiane le hanno sempre tenute ai margini, se non ignorate del tutto, e i cuochi mai considerato i pizzaioli loro colleghi. Adesso è facile indignarsi con la Michelin, però tanti dovrebbero fare autocritica. Se noi che l’abbiamo inventata, l’abbiamo snobbata per decenni, perché l’avrebbero dovuta premiare i cugini? Per farci un dispetto?

Paolo Marchi, testi di Carlo Passera e Luciana Squadrilli
 

Identità Milano 2016: Pizza e libertà

"La forza della libertà", bello il tema della prossima edizione di Identità Milano. Perché quando si parla di libertà nel cibo il pensiero va alla tavola che scioglie lo stress del giorno, a quei momenti di gratificazione nei quali ci liberiamo dalla formalità per abbandonarci a relazioni di amicizia, simpatia, amore, famiglia. Meglio senza i legacci di diete che mortificano la varietà.

La pizza è esemplare: piatto unico nei momenti di libertà per antonomasia, simbolo di alimentazione informale che nel tempo si è raffinata fino a lambire il mondo della cucina. La pizza è da sempre un gesto di libertà semplice, popolare, alla portata di tutti. La prossima edizione di Identità Milano dà però lo spunto per guardare da un altro punto di vista il tema della libertà, usando la pizza per stimolare a un utilizzo più responsabile e sostenibile degli ingredienti di una cucina.

È così, il lunedì di Identità di Pizza sarà un percorso attraverso i lieviti e gli impasti che di volta in volta diventano dolci, pani, pizze e anche ricette che nascono dal loro riutilizzo. Nel pomeriggio Lello Ravagnan, Massimo Giovannini e Giuseppe Rizzo saranno i protagonisti di una trilogia costruita da Federica Racinelli e Corrado Assenza per Università della Pizza sul riutilizzo degli impasti per associare alle loro pizze un antipasto, un primo e un dolce. Il cornicione che diventa cannolo, il raviolo di lievito madre e le palline di plum-cake saranno i primi gesti di una pizza che finalmente si libera dalla gabbia del suo nome.
Piero Gabrieli
 

Franco Pepe fa tutto esaurito in California

The best pizza maker in the world", ossia “il miglior pizzaiolo del mondo” diceva qualche settimana fa il Los Angeles Times, raccontando della trasferta californiana di Franco Pepe. Scriveva l’articolista: “Pepe non è il solito pizzaiolo rustico, ma fa parte della nuova genia dei gastro-filosofi italiani”.

Parole lusinghiere al termine di una tournée da superstar: prima a Londra con Identità Golose e Harrods, poi negli Stati Uniti come solista, nove giorni tra Los Angeles e San Francisco, sei incontri-degustazioni da tutto esaurito, e non certo per il modico prezzo (195 dollari per assistere al cooking show e divorare 4 spicchi della pizza “Pepe style”, con abbinamento vini incluso).

«Esito: sold out. E alla fine non volevano mai andarsene! – spiega interessato - Tutti a chiedere, a stringermi la mano… C’era chi era venuto apposta dal Texas, qualcuno persino dal Messico. E c’erano tanti imprenditori e businessmen, mi hanno fatto proposte da capogiro, troppo grandi per me».

Perché Pepe è un uomo integro e quando gli si domanda quale sia stato il complimento più gradito, cita quello Jonathan Gold. E non tanto perché Gold è un famoso scrittore e giornalista, vincitore del premio Pulitzer; quanto per quello che gli ha detto, dopo aver mangiato la pizza: «Caro Franco, sai che ti dico? Che sa di Caiazzo», ossia il borgo campano dove – citiamo di nuovo il Los Angeles Times - “il nonno di Pepe aprì la sua pizzeria. E dove oggi, ogni sera, la pizzeria Pepe in Grani viene presa d’assalto da 400 clienti, lieti di fare giudiziosamente una fila che può durare anche due ore”.

Tanti elogi, roba da ubriacatura, da stordimento, «una grande esperienza. Per la quale devo dire grazie a Nancy», che di cognome fa Silverton, patron di diversi locali assai popolari a LA (e Singapore), denominati Mozza o Spacca, in comproprietà con Mario Batali e Joe Bastianich. E’ stata lei a volere Pepe in California, e alla fine ha espresso un solo rammarico, sorridente: «Ora che hanno assaggiato la pizza di Franco, i miei clienti non vorranno più mangiare quelle che prepariamo noi!».
CP
 

Carmine Nasti, il maestro del fuoco, spiega che...

La Farina e il Fuoco”, si intitola il bel documentario sulla pizza italiana contemporanea girato oltre un anno or sono all’Università della Pizza nell'antico molino della famiglia Quaglia. E se per la farina, dunque, non si sbaglia – Petra, in questo caso – per il fuoco è buona cosa chiedere a Carmine Nasti, classe 1951, originario di Tramonti: uno che, con tali presupposti biografici, avrebbe potuto accomodarsi sulla placida - ma perfettibile – tradizione, proporre il già visto, senza ulteriori grattacapi. E invece…

E invece una fiamma, quella della conoscenza, ardeva e arde ancora nel suo cuore. Per uno specialista del fuoco, converrete, è persino logico. Spiega: «Tramonti, sulla Costiera Amalfitana, vanta una grande scuola di pizzaioli, che si discosta da quella partenopea». Quest’ultima prevede una cottura “violenta” e breve, a 450° circa per 45-50 secondi, «per questo il disco risulta a volte un poco bruciacchiato. E poi, a quella temperatura, come si fa a preservare gli aromi del condimento?». Impossibile, o quasi.

La vulgata tramontina prevede invece che la pizza stia in forno più a lungo – sui 2 o 3 minuti – e con una temperatura che non vada oltre i 350°, «così acquista una perfetta doratura – noi diciamo che diventa allampata – e risulta alla fine croccante e profumata, perché veniamo da una tradizione contadina, ognuno usava farina macinata a pietra a partire dai propri grani. Applichiamo alla pizza la stessa tecnica con la quale preparavamo anche il pane».

Sono 50 anni che Nasti perfeziona questo suo cocktail di conoscenza tramandate e innovazioni acquisite. E’ un habitué dell’Università della Pizza: «Mi è sempre piaciuto migliorarmi. Perché la pizza sia buona, ma anche perfettamente digeribile, occorre fare attenzione a tutte le fasi: impasto, topping, cottura». Una decina di anni fa – racconta – questo mix non lo soddisfaceva più, «ero a un punto di non ritorno. Mi chiedevo: ma cosa stiamo servendo ai nostri clienti?». Ha trovato la soluzione.

Oggi Nasti sovrintende la pizzeria di famiglia, a Bergamo (Da Nasti), dove lavorano anche i figli Vittorio e Riccardo, oltre al nipote Carmine jr, mentre un altro nipote, Giovanni, è andato a proporre buona pizza negli Usa, a Manhattan, al Via della Pace Pizza.
CP
 

Salvatore Gatta, Basilicata coast to coast

Il Vulture, area interna della Basilicata al confine con Campania e Puglia, è una delle zone meno conosciute d'Italia, offuscata pure da Matera, ormai protagonista dei flussi turistici e mediatici regionali. Eppure, nei luoghi che furono prediletti da Federico II – come testimoniano i castelli di Menfi e Lagopesole, tra gli altri – non mancano bellezze artistiche e paesaggistiche, né tantomeno validi indirizzi gastronomici. In una manciata di chilometri (resi più lunghi da collegamenti poco agevoli), tanto per dire, ci sono il forno di Vincenzo Tiri di Acerenza – dove nasce un fantastico panettone da podio -, il bel resort Le Masserie Del Falco a Forenza, dove cucina il giovane chef Gianfranco Bruno, e pure la “Verace Pizza Napoletana” di Salvatore Gatta (nella foto di Oliviero Toscani) che da sola vale il viaggio fino a Scalera, piccola frazione di Filiano.

Qui si trova Fandango, accogliente pub in stile Irish in procinto di cambiare pelle in sintonia il percorso di Salvatore che, partito come gelatiere, è poi approdato alla pizza sulle orme della mamma Assunta affiancandovi birra e musica. Oggi – vuoi per motivi anagrafici, vuoi per i risultati ottenuti – la pizza è al centro del suo lavoro: impasto soffice e leggero, forse più vicino a quello di Franco Pepe che alla tradizione napoletana ortodossa – ottenuto con lievito madre, lunga maturazione e un'impastatrice a bracci che riproduce la gestualità dell'impasto manuale – e condimenti di eccellenza.

Questi spaziano soprattutto nel repertorio gastronomico regionale, più ricco di quanto si potrebbe pensare a cominciare dai diversi Presidi SlowFood, alla cui filosofia Salvatore è vicino: dalla mozzarella di bufala fatta nella vicina Lavello al salame pezzente, dalle squisite olive infornate di Ferrandina ai deliziosi peperoni cruschi di Senise, noti come zafarani per il colore della polvere che se ne ottiene e per il loro pregio. Da provare la Lucana, con mozzarella di bufala, pomodori del piennolo, pesto homemade di noci e basilico, olive di Ferrandina, “zafferano” lucano di peperoni e scaglie di caciocavallo podolico.
LS
 

I due calabresi che fanno impazzire Mark Zuckerberg

Abbiamo scritto prima del tour di Franco Pepe negli Usa. Rimaniamo in California per raccontare la storia di due fratelli calabresi intelligenti e pure ironici, Franco e Maico Campilongo. Di Scalea, studi in economia e ingegneria all’università di Cosenza, qualche esperienza di lavoro in Italia, poi l’approdo sulla West Coast. Iniziano con umiltà, ma si guardano in giro per capire che aria tira.

Lavorano in un bar ristorante italiano come aiuti cucina e camerieri; hanno un collega – racconta Camilla Baresani, che ha scritto la loro vicenda per il Corriere Innovazione –, tal Kevin Systrom, che pochi mesi dopo si dimette e finisce in copertina su Forbes, come fondatore di Instagram.

«Si può fare!» esclama Gene Wilder, e così devono aver pensato anche i Campilongo. La California è la terra per eccellenza del sogno americano. E dato che i due quarantenni sono intelligenti, si lanciano in un business che funziona: quello delle pizzerie. Ne aprono una a Palo Alto, nel 2012.

Ma, si diceva all’inizio, sono anche ironici: decidono così di chiamarla Terùn. Il successo è immediato, perché puntano alla qualità: pizza cotta nel forno a legna, mentre la cucina propone piatti italiani tradizionali eseguiti in modo contemporaneo, cioè con attenzione a tecniche e materie prime. Firma lo chef Kristyan D’Angelo, d'origine tarantina (nella foto, a sinistra, con Maico Campilongo).

Terùn si trova su California Avenue, e vi passano proprio tutti, dal fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, al ceo di Apple, Tim Cook, e naturalmente anche l’ex collega Systrom. Oltre a studenti e professori di Stanford, e a tutta la comunità italiana della Silicon Valley.

Scrive ancora la Baresani: “Partenza con l’apporto di due soci finanziatori con quote del 10% e del 20%, conosciuti tra i clienti liquidi del ristorante Venezia (quello dove lavoravano all'inizio, ndr). In soli tre anni il valore del locale, che in Usa è valutato sul profitto, è diventato quattro volte quello iniziale. «Se avessimo chiesto i soldi in banca...», è l’unico rimpianto dei fratelli Campilongo: con un simile incremento di valore è diventato impossibile ricomprarsi le quote del ristorante”.

Ultima annotazione: i Campilongo dovevano avere gli Usa nel destino, loro nonna era emigrata in America a fine Ottocento, "Maico" è italianizzazzione di Michael...
CP
 

Wicky Priyan, prove generali di pizza fusion

Vogliamo considerarlo, per ora, un gioco? Ok, facciamolo pure. Però l’altro giorno, quando Wicky Priyan (nella foto) su Facebook ha postato la foto della sua prima pizza, un campanello è suonato nella nostra testa. Voleva segnalare non allarme, ma curiosità. Perché mai uno chef originario dello Sri Lanka, che firma una proposta di successo nel centro di Milano basata su tecniche giapponesi che si sposano con uno stile fusion – lui la chiama Wicuisine – si cimenta in impasti nostrani?

Ne è discesa la domanda conseguente: perché non chiederlo all’interessato? Così abbiamo fatto. «In cucina ho tre forni elettrici in grado di garantire temperature perfette. Così ho voluto cimentarmi in un campo per me inesplorato, quello della pizza. Per ora l’ho mangiata io e l’ho servita al mio staff, ma proseguo con le prove, con l’obiettivo di proporla come amuse bouche al ristorante Wicky’s, tra qualche mese, quando avrò consolidato la formula migliore».

Rimane la domanda: perché la pizza? Tu sei uno chef che guarda al Mediterraneo, ma con occhi orientali… «E faccio così anche in questo caso: tecnica italiana e ingredienti asiatici». Il che significa: farine bianche e integrali, lievito madre, lievitazione di più di 5 ore… Però già qui fan capolino gli occhi a mandorla, «aggiungo un poco di farina di riso, con l’obiettivo di perfezionare in futuro una pizza il cui impasto si basi totalmente su quest’ultima, che dunque sia gluten free».

Il disco intanto ha già acquisito un aspetto “alla napoletana”, morbido al centro, con un cornicione alto, croccante.

La guarnizione è originale: mozzarella dop, ma poi ricciola o capesante giapponesi, kongxincai (lo spinacio d’acqua cinese), basilico thai… «Cuocio il disco per un paio di minuti, poi condisco e rimetto in forno per altri 4». L’esito è felice, come Wicky: «Ora lavoro in Italia, dove impiatto la mia cucina, frutto delle tecniche che ho imparato in Giappone. Non so però dove andrò in futuro, magari mi ritroverò a Tokyo: e allora vorrò applicare lo stesso modello, ossia colpire con uno stile diverso, in questo caso grazie alla contaminazione tricolore, che vuol dire anche la pizza. Studio, per portare la vostra eccellenza dentro al mio cuore. Ovunque».
CP
 

La Chamade, emozioni gourmet a Licola

Si amplia sempre di più il circuito di locali campani che aderiscono al format “Pizza Gourmet” voluto da Giuseppe Acciaio titolare della Gma Specialità, che si avvale della consulenza di Luigi Acciaio, presidente dell’omonima Associazione, e di Gilberto Acciaio, beer sommelier. A sposarne la filosofia di eccellenza e a utilizzare i prodotti selezionati dal “paniere” di Pizza Gourmet – a cominciare dalle farine Petra di tipo 1 e 2, macinate a pietra tutelando sapori e consistenza del germe di grano – c'è anche La Chamade, ristorante e pizzeria di Licola, a poca distanza da Pozzuoli (via San Nullo 48, Licola, Giugliano di Napoli, +39.081.8047635).

Nato nel 1994 e guidato da Valerio ed Emanuele Di Vaio, il locale prende il nome da una parola anticamente usata dai nobili francesi in visita alla corte di Napoli per indicare la grande emozione alla vista delle bellezze della città. E puntano al cuore anche le pizze del nuovo menu invernale, messe a punto dopo un periodo di formazione con Luigi Acciaio e realizzate con ingredienti locali: nascono così le diverse declinazioni della Margherita, da quella Gragnano (pomodorino di Gragnano Presidio Slow Food, fior di latte di Agerola, basilico, extravergine Pregio Dop Colline Salernitane) a quelle Vesuvio (pacchetelle di pomodorino del piennolo Dop di L’Orto di Lucullo, fior di latte di Agerola, basilico, extravergine Pregio denocciolato) e Corbara (pomodorini di Corbara in salsa, fior di latte di Agerola, basilico, Pregio Dop Colline Salernitane).

Tra le altre allettanti proposte: la Pomo D’Oro e ricotta, con pacchetelle di pomodoro giallo e origano selvatico L’Orto di Lucullo, fior di latte e fior di ricotta di Agerola, aglio in camicia, basilico ed extravergine Pregio; e la Cetarese su cui vengono aggiunti a crudo Mozzarella di Bufala Campana Dop, pomodorini di Corbara in acqua e sale, tonno, alici e sgombro di Cetara di Il Mare di Lucullo, origano selvatico L’Orto di Lucullo, basilico e un filo di extravergine Pregio.
LS
 

Emiliano Aureli, un corsaro in Sabina

Il nome del locale – Taverna dei Corsari – si riferisce al nomignolo degli abitanti di Montopoli di Sabina e deriva dai cani corsi che in passato difendevano le campagne locali. Ma ben racconta anche le gesta di Emiliano Aureli, pizzaiolo 33enne che divide la cucina della Taverna – dove si preparano anche piatti tipici della zona, paste fresche e carni allo spiedo – con la mamma Antonietta.

“Nato” in pizzeria – in passato i genitori hanno avuto un'altra pizzeria, prima, e poi una pizza al taglio – Emiliano ha le mani in pasta da quando aveva 15 anni e non ha mai smesso di studiare, seguendo un percorso di ricerca e qualità. Dai corsi all'Università della Pizza a Vighizzolo d'Este alla partecipazione a diversi PizzaUp, per approfondire non solo le tecniche di impasto ma anche quelle di cucina e la conoscenza delle materie prime, Emiliano è sempre pronto a mettersi in gioco: dopo aver frequentato un corso da sommelier per dedicarsi alla selezione di vini e birre, è ora pronto a rinnovare attrezzature e ambienti del locale. «Abbiamo cominciato 10 anni fa, quando il mio bagaglio professionale era piccolo – racconta – ora è cresciuto e bisogna rinnovarsi, in base alle esperienze che ho accumulato».

Studio e dedizione lo hanno portato ad approfondire sempre di più il discorso “pizza e lievitati” mettendo a punto tre impasti tutti a base di farine Petra e sale di Cervia, più dolce e meno aggressivo di altri tipi di sale: quello “tradizionale”, quello “alla romana”, più croccante, e quello “soffice”, più alto e arioso, realizzato con lievito madre e lievitato nel padellino. Altrettanta cura anche nei topping, per cui sceglie prodotti locali e non, seguendo le stagioni. Tra le pizze “invernali”, ad esempio, citiamo quella “romana” con cavolo cimone romano, pomodoro bio a pezzettoni, fior di latte, culatello e pecorino di fossa e quella tradizionale con robiola di capra, mozzarella di bufala, birra spalmabile e l'aggiunta, a fine cottura di Speck dell'Alto Adige.
LS
 

Ca'Puccino con pizza, ed è pure buonissima

Ca’Puccino con pizza? Sembrerebbe un crimine gastronomico, è invece una bella (e buona realtà) firmata Giacomo Moncalvo, l’imprenditore piemontese che sta facendo conoscere il miglior cibo italiano anche al di fuori dei confini nazionali, grazie a un marchio – Ca’Puccino, appunto – diffuso sempre più capillarmente, sono oggi 16 le insegne del gruppo, dalla Sicilia all’Inghilterra, da Roma a Milano passando per Bologna, Parma, Firenze e Alessandria.

Ca’Puccino significa anche sei locali a Londra, tra i quali quello di Harrods o l’altro, all’interno dell’aeroporto di Heathrow. Ma significa persino Petra. Perché quando il marchio - partito ovviamente dalla caffetteria, ma poco a poco allargatosi a una proposta più complessiva di cucina italiana di qualità – ha pensato di studiare un menu che contemplasse pane, pizze e focacce home made, inevitabile è stato l’incontro con le farine prodotte a Vighizzolo d’Este, sede di Molino Quaglia.

Per usare uno slogan, prima erano tre le “f” di Ca’Puccino, food, forniture e fashion, grazie alla scelta di esportare l’immagine dell’Italia contemporanea, trovando una perfetta unione tra buon cibo, arredamento e moda. Oggi se n’è aggiunta un’altra: “farina”.

Spiega Duccio Orlandini, group executive chef di Ca’Puccino: «Il cliente italiano è affezionato al pane e alla pizza. Li conosce e non si può ingannare. Perciò la scelta dei prodotti da forno da offrire per accompagnare i nostri panini e le nostre focacce è stata studiata con attenzione. Con Petra siamo riusciti a trovare l’equilibrio di sapori e nutrimento che cercavamo. Ci siamo impegnati in un importante sviluppo del prodotto finito, scambiando suggerimenti e idee per presentare focacce, panini e pizze fragranti e soffici al punto giusto».

Così oggi da Ca’Puccino in Italia sono servite focacce con prosciutto di Parma 18 mesi, stracciatella e basilico, o con pomodorini al forno, rucola e burrata. In Inghilterra con prosciutto crudo e mozzarella di bufala o con petto di pollo arrosto, avocado, pomodorini e lattughino. Mentre la pizza di Petra si presenta con pomodorini Pachino, fiordilatte e basilico, spesso scelta come “starter” da dividere tra i commensali all’inizio di un pasto che continua all’insegna dei migliori piatti e sapori nazionali.
CP
 

Arcangelo Zulli, ottima annata alla Sorgente

È stato decisamente un buon 2015 per La Sorgente, la pizzeria di Arcangelo Zulli a Guardiagrele, nel Chietino: alla menzione tra le migliori Pizzerie d’Italia per la guida dell’Espresso si sono affiancati i tre Spicchi del Gambero Rosso e il premio speciale per la miglior pizza al piatto dell’anno con la “Provocazione”, impasto semi-integrale con ventricina teramana, bufala affumicata, cipolla rossa di Tropea marinata, mandorle amare, miele di arancio e finocchietto selvatico. Eppure La Sorgente non è certo una rivelazione recente.

Sono esattamente 30 anni che Zulli si dedica alla pizza, prima con l'approssimazione comune a quei tempi, poi con sempre maggiore studio e attenzione, senza mai tirarsi indietro davanti a nuovi stimoli come i corsi e le iniziative dell'Università della Pizza, che dal 2010 segue assiduamente. Con gli anni, lui e il suo staff – formato in gran parte dalla famiglia, dai figli in sala alla nuora in pasticceria – hanno reso il locale uno dei punti di riferimento regionali per la pizza di qualità. Questo grazie a impasti gustosi e digeribili e a condimenti che raccontano il territorio abruzzese e le sue eccellenze, che hanno portato La Sorgente nel novero delle Pizzerie dell’Alleanza di Slow Food.

Diversi gli impasti proposti oggi da Zulli, frutto di lunghe maturazioni e quasi sempre con lievito madre: da quello classico cotto in padellino, con cui era partito già nel 1985 e che appartiene all'uso locale, alla romana alla pala – messa a punto con Renato Bosco, di cui Zulli sposa il progetto Figli di Pasta Madre – ma pure quello con farina di farro e quello realizzato con biga e lievito madre, croccante fuori e morbido dentro, dedicato ai topping più ricercati. Poi c'è l'originale Riempizza (nella foto), pizza alla pala ad altissima idratazione (93%) e con il gusto rustico della farina integrale, che strizza l'occhio alla moda dello street food: con i bordi racchiusi verso l’interno, viene riempita secondo l'estro del pizza-chef, ad esempio con calamari, stracciata, peperoni, zucchine, aglio rosso di Sulmona, zeste di limone, prezzemolo riccio, pepe di Sarawak ed extravergine.
LS
 

Le lasagne di pizza di Antonello Piedigrotta a Varese

Lasagna di pizza classica, un’idea di Antonello Cioffi, titolare con la moglie Daniela Castriotta della Piedigrotta, pizzeria e ristorante in via Romagnosi 9 a Varese, telefono +39.0332.287983.

Io qualcosa dalla carta l’eliminerei, troppo di tutto, però tutti parlano bene di tutto quindi ha ragione lui, Antonello, che ha creato un meno sperimentale nel quale inserisce classici della cucina pastaiola, e non solo, vedi l’interpretazione della Mozzarella in carrozza, con e senza acciuga, ripensati con l’impasto della pizza, dal sushi alle tagliatelle alla carbonara. Chiusura con la Margherita dolce e il gelato di mascarpone a far le veci della mozzarella.
 

Il panettone speciale 100x10 firmato da Renato Bosco

Per finire, ecco il panettone speciale, a tiratura limitata e non destinato alla vendita, che Renato Bosco ha realizzato usando il logo di 100 chef x 10 anni, il testo curato da Identità Golose, edito da Mondadori Electa e disponibile in tutte le librerie, oltre che online.

Racconta l'evoluzione della cucina italiana dell'ultimo decennio e comprende anche i migliori pizza-chef: oltre a Bosco, anche Gabriele Bonci, Stefano Callegari, Simone Padoan, Franco Pepe e Ciro Salvo. Perché alta cucina e nuova pizza italiana, ormai, vanno a braccetto.
CP