Monograno Felicetti

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L’onda lunga di Expo 2015: in questo numero di Identità di Pasta, a due settimane abbondanti dalla conclusione dell’Esposizione Universale, completiamo il panorama di ricette proposte durante gli appuntamenti sviluppati assieme con il Pastificio Felicetti di Predazzo in Trentino. Il tutto a iniziare dai paccheri con prezzemolo, lingua e lumache di Carlo Cracco.

Si è trattato di un tour scandito da 33 appuntamenti, dagli Spaghetti Milano di Andrea Ribaldone a inizio maggio alle mezzemaniche che la ligure Serenella Medone il 30 ottobre ha condito con trippe e muscoli (in Liguria non esistono le cozze, solo muscoli). Si è trattato di uno straordinario e spiazzante viaggio compiuto da 27 cuochi tra le regioni italiane, memorie ripensate alla luce di un presente che guarda in avanti, più le idee di sei chef d’eccezione liberi di pensare alla pasta liberi da vincoli di territorio e tradizioni.

Il tutto darà vita a un libro, un’esperienza che ricorderemo a lungo. E in chiave Identità Golose 2016, l’appuntamento con Identità di Pasta è fissato per martedì 8 marzo.

Paolo Marchi
 

E' successo al Congresso mondiale della pasta

«Quando inizia a parlare di pasta non la smette mai». E' l’appunto che mi viene rivolto più spesso. Durante il World's Pasta Day & Congress, il Congresso mondiale della pasta che si è svolto a Milano dal 25 al 27 ottobre ho ascoltato invece affrontare questo argomento colleghi pastai, giornalisti, nutrizionisti e cuochi. Ci hanno raccontato le loro storie di pasta.

Ho seguito interventi puntuali, finalmente interessanti, non autoreferenziali; anzi talvolta anche critici. Ne abbiamo avuto prova il martedì quando si è acceso un confronto straordinario su uno dei temi caldi che riguardano la pasta: “Carbofobia, prodotti senza glutine: pregi, difetti”.

Mi hanno emozionato due interventi su tutti: l’iniziativa raccontata dallo chef Bruno Serato: il suo ristorante ad Anaheim, California, Caterina’s Club ogni giorno sfama 1.500 Motel Kids in California con un piatto di pasta. E l’intervento dello chef Massimo Bottura, che tra le altre cose ha indicato nel recupero della relazione diretta con il mondo agricolo e artigiano l’unica via possibile verso un cibo vero, sano e buono: biodiversità e qualità non devono essere solo ingredienti ma anche idee.

Per una volta, noi pastai, abituati a parlare di pasta (e chi ci ferma!), abbiamo ascoltato e imparato davvero molto.
Riccardo Felicetti
 

Aimo e Nadia: «Codifichiamo le cotture della pasta»

Spaghetti al cipollotto e peperoncino: in Italia non esiste insegna che tiene da così tanto tempo in carta un piatto di pasta secca, quasi 50 anni. Anzi, «Non lo teniamo più in carta», rivela Alessandro Negrini, co-chef de Il Luogo di Aimo e Nadia di Milano, «ma la gente sa che c’è e lo chiede lo stesso». Chi meglio di loro può fare il punto sulla tenuta della pasta nell’alta ristorazione?

«Le cose vanno meglio di 15 anni fa perché oggi non ci si scandalizza più se si trova della pasta secca in carta in un ristorante con 2 stelle Michelin. Ma c’è ancora molto da fare, intanto perché qui al nord il risotto è sempre padrone. E abbiamo sempre problemi a far capire il prodotto alla clientela straniera: ricordo che un paio d’anni fa, a un evento in Portogallo, c’era chi si scandalizzava del fatto che avessi deciso di portare una pasta, considerata troppo cheap. Altro esempio, i nostri clienti asiatici non concepiscono proprio la pasta al dente: la vogliono sempre fresca. Le poche volte che la chiedono secca, la vogliono ben cotta. Ecco, visto che, come dice Ducasse, noi italiani non riusciamo nemmeno a metterci d’accordo sul grado di cottura della pasta, una soluzione potrebbe essere quella di codificarne il grado di cottura, come fanno i paesi anglosassoni con la carne – rare, medium rare, well cooked – in, che so, 'molto al dente', 'al dente' e 'ben cotta'».

O anche stracotta: «Con Felicetti stiamo lavorando a un piatto in cui il pacchero è stracotto e viene condito da una seppia cruda tagliata sopra a julienne, per moltiplicare le consistenze. Una provocazione perché è sempre importante tenere larghe le maglie della sperimentazione in materia».

E il piatto in foto? »Sono Spaghettoni Benedetto Cavalieri con colatura di alici di Cetara, cime di rapa, nocciole Tonda Gentile delle Langhe al profumo di tartufo bianco, li abbiamo in menu ora. È un viaggio da nord a sud che rivede 'acciughe e tartufo nero', un binomio storico nel Meridione. E che sdogana il tartufo sulla pasta secca – nell’immaginario comune il fungo cade solo su quella fresca. La crema di nocciola dà grassezza come succedaneo del burro». Un piatto che conta molto sulla precisione del cuoco: «Basta un cucchiaino in più di colatura o un surplus di nocciola per diventare una schifezza. È la forza e il limite della cucina italiana: è difficile da codificare perché conta molto sul gesto del cuoco, insostituibile per fortuna e purtroppo».
Gabriele Zanatta
 

Lopriore e Pierangelini: il gesto dietro agli spaghetti

Nello stesso momento in cui parliamo al telefono con Alessandro Negrini (leggi post qui sopra), ci arriva a casa il numero 13 di Cook_Inc., officina internazionale di cucina edita da Vandeberg edizioni (si ordina online qui). Curiosamente, la rivista si apre con delle riflessioni interessanti e non dissimili sul gesto del cuoco italiano, espresse da Paolo Lopriore, chef del ristorante Tre Cristi di Milano, a partire dall'assaggio di un piatto di pasta.

Lo chef comasco si interroga sulla definizione di gusto italiano, «se ha senso trovarne una, in un’epoca come questa in cui la contaminazione ha invaso le nostre cucine». «Avevo quasi rinunciato […] finché non mi sono ritrovato davanti a una strepitosa Spaghetti alle vongole, sorprendendomi sovrappensiero, come i miei commensali, a succhiare il guscio. […] Eravamo attori di un gesto antropologico capace di scardinare le convenzioni gastronomiche. La pasta era stata realizzata da Fulvio Pierangelini. […] Con lui ho cercato di dare sostanza a quella subitanea illuminazione del guscio».

E così inizia un fitto dialogo tra Lopriore e il collega toscano, che parte dagli Spaghetti con aglio, olio, peperoncino e vongole e giunge alle stesse conclusioni di Negrini: «La dieta mediterranea nell’alta cucina non è tanto il prodotto ma il gesto del cuoco». Perché, spiegava Lopriore, «Al di là degli ingredienti, in quegli spaghetti c’era il polso che aveva mantecato, un tratto unificante, forse l’unica possibilità di comprensione tra il mondo di chi mangia e di chi cucina a patto che il piatto sia vero».

E se allora, per Pierangelini «Non esiste un unico gusto italiano» perché, ad esempio, «In Sicilia tutti hanno i toni più alti: della voce, del sale, dello zucchero, perché sono stati dominati dagli spagnoli e dagli arabi», è altrettanto vero che «Il gusto italiano è tutto nel nostro Dna. Sta solamente nel come tu tocchi un pomodoro. Così fai la differenza».
GZ
 

Enrico Bartolini: in omaggio a Valentino Rossi

Pochi giorni fa, Enrico Bartolini, chef del ristorante Devero di Cavenago Brianza, appena eletto Chef dell’anno dalla Guida ai Ristoranti di Identità Golose, ha pubblicato questa bella foto su facebook: Spaghetti gamberi, verdure e finger lime, una variante del piatto presentato qualche settimana fa a Identità Expo. Accanto, c’era il commento «A Valentino, Marc Marquez vorrebbe tendere la mano. Io invece gli cucinerei questi spaghetti!». Interrogato sul senso della frase, il cuoco pistoiese, 2 stelle Michelin, ci ha spiegato: «A guardarli mi hanno ricordato le curve del circuito di Valencia (quello che ha sancito la fine del Mondiale di MotoGp, vinto dallo spagnolo Jorge Lorenzo per la condotta ai limiti della decenza del collega Marquez, impegnato a ostacolare o sfavorire Valentino Rossi, ndr). E’ il mio omaggio a Rossi». Li cucineresti anche a Marquez? «Dopo quello che ha fatto, giammai».
 

Prezzemolo, lingua e lumache: Carlo Cracco

Si chiama Pàche al pre il piatto che Carlo Cracco ha presentato a ottobre scorso all’Expo. E racchiudeva l’essenza dell’Esposizione universale: ingredienti poveri, cipolle e prezzemolo, proteine alternative sostenibili, il caviale di lumaca, e recupero degli avanzi, quelli della lingua di vitello. Il tutto senza grassi aggiunti, per promuovere una dieta sana.

Il cuoco più popolare d'Italia è abituato agli ingredienti insoliti, vedi i Rigatoni alla resina di mastica, un ingrediente tipico dell’isola greca di Chios: così ecco le uova di lumaca. Delicatissime, dal sapore quasi terroso, sono un prodotto difficile da lavorare (e quindi costoso) ma sostenibile; una fonte di proteine poco diffusa, ma assai vicina alla tradizione mediterranea. Più famose nella versione francese, anch’esse abbinate al prezzemolo, le escargot (Helix pomatia) allevate in Italia hanno un sapore più deciso grazie alla varietà e qualità del cibo che mangiano.

Gli altri ingredienti sono più comuni, lavorati in maniera superba ma di facile comprensione e replicabilità anche a casa. Le cipolle sono cotte in forno a lungo e poi fatte sgocciolare per ore fino a ottenerne un succo super concentrato e zuccherino, mentre i petali che rimangono sono leggermente pressati e poi tornano in forno a essiccare. Il prezzemolo è strabollito e frullato e accoglie in padella, senza grasso alcuno, i pàche, poi impiattati con la lingua di vitello bollita e tagliata a julienne, il caviale di lumaca e la “melassa” di cipolle.

Una ricetta dal sapore pieno e minerale con ingredienti molto armonici tra loro, come spiega lo stesso Cracco, «non volevo un piatto con gusti contrastanti, la lingua si sposa bene con l'aroma delle lumache, assomiglia a quello delle frattaglie».
Valeria Senigaglia
 

Serenella Medone: mezzemaniche e De Andrè

L’ultimo di 32 appuntamenti in 6 mesi con Identità di Pasta a Expo ha avuto per protagonista Serenella Medone, cuoca de Al Solito Posto, "un’insolita cucina" a Bogliasco (Genova). Il piatto era un’anteprima, una ricetta della memoria che conduceva nella Genova raccontata da Fabrizio De Andrè.

Serenella cucina la trippa con le cozze, «Anzi, i muscoli perché io chiamo cozze le donne bruttine». La trippa è cucinata a 90°C («ma non troppo a lungo») e poi condita con salicornia, zenzero, limone. I muscoli escono dal guscio a contatto col vapore e sopno poi conditi con un filo d’olio, zenzero, vino bianco e aglio. «Che formato di pasta ha scelto?», la incalzava la giornalista Eleonora Cozzella, all’ultima moderazione dell'intenso semestre. «Sono mezzemaniche Monograno Felicetti, da grani selezionati in Puglia ma lavorati in Trentino: buonissime, sono una risposta alle trenette che noi liguri abbiamo mangiato allo sfinimento. Lo ho scelte perché tengono perfettamente la cottura». E poi lei ama la pasta corta in genere: «Adoro il pacchero, in particolare».

Le trippe vengono ripassate nella semola di grano duro, poi fritte e mescolate con i muscoli, succo di limone - messo alla fine per caramellizzare - acqua dei muscoli, acqua di cottura, trippa saltata in precedenza in padella e salicornia per chiudere la guarnizione («ma si possono usare anche asparagi o agretti»). Mi raccomando: «Il formaggio non ci va: rischia di coprire il gusto. Un piatto molto generoso da abbinare a un pigato invecchiato.
Sara Salmaso
 

Stefania Di Pasquo: linguine dimenticate

Al penultimo appuntamento di Identità di Pasta, era salita in cattedra Stefania Di Pasquo, giovane cuoca della Locanda Mammì di Agnone, in provincia di Isernia, Molise, un piccolo paese a 800 metri sul livello del mare, e vicepresidente dell'Associazione Identità AltoMolise (Iam).

Soggetto della lezione, Linguina Dimenticata, cioè una Linguina al Kamut Monograno Felicetti con roveglia, tartufo bianco e caciocavallo. Roveglia? «Sì», spiegava lei, «è l’ingrediente dimenticato di cui parlo. È un legume, un pisello selvatico molto simile alla lenticchia. Si coltivava fino a 50 anni fa e poi non è stato più raccolto perché la pianta molto piccola e la raccolta molto difficile da meccanizzare. Può essere fatta solo a mano». Viene da Le Miccole, una piccola azienda agricola di Capracotta.

Il procedimento: «Si cucina la roveglia, in ammollo almeno 12 ore. Poi si cuoce in acqua e sale con un mazzetto aromatico classico: salvia, rosmarino, alloro e sale. Viene frullata, setacciata e se ne fa una purea. Parte della roveglia è essiccata per creare una guarnizione simile ai grani di pepe. Viene cotta risottata per circa 6 minuti. Si aggiungono gocce di olio aromatizzato al tartufo bianco», fatto naturalmente dalla cuoca, tenendo assieme olio e fungo per 6 giorni.

Perché proprio la linguina Kamut? Per la consistenza tenace, molto adatta alla roveglia. «Ha infatti un diametro di 30% superiore al normale», interviene nella lezione Ricccardo Felicetti, patron del pastificio di Predazzo in Trentino, «ed è un prodotto soggetto alle variabili delle stagioni. La difficoltà del pastaio è quella di mantenere uno standard qualitativo costante, pur in condizioni di raccolta che variano di anno in anno. Rendere costante la qualità è difficile: i grani cambiano da una stagione all’altra. Ma ondulazione qualitative a livelli così alto sono indice di qualità».
SS
 

Le Dolomiti di Puglia di Nicola Laera

A Identità Expo, Nicola Laera, chef della Stua de Michil della Perla, ha impiattato una passeggiata boschiva. Origini ladine e pugliesi da parte di padre, anche lui cuoco, veste ormai i panni del Tirolese doc, innamorato della montagna, di cui valorizza prodotti e sapori. L’abbinamento tra manzo, funghi e Bagòss già compare su uno sfizioso crostino tra gli entrèe in carta al ristorante mentre tra i primi c’è stato a lungo uno spaghetto condito da tartare di tonno e gazpacho. In medio stat virtus e così Laera fa incontrare le due ricette a metà strada per originarne una terza.

Quest’inno alle Dolomiti comincia con le note degli spaghetti di Kamut Felicetti, un grano, il kamut, che affascina il cuoco per la stretta parentela con il farro e per le sue continue apparizioni e sparizioni nella storia, fino a quel famoso aviatore americano che lo ha riportato in voga dopo averne donato alcuni semi al babbo agricoltore. La pasta incontra i porcini tagliati a fette sottili e passati in padella, calda ma spenta, con un filo d’olio e aglio in camicia. Dopo la risottatura, arrivano anche la mantecatura con il burro d’alpeggio e il Bagòss grattugiato, che dona al piatto un tocco di eleganza in più.

A dominare il nido di spaghetti è sua maestà il filetto di grigia alpina, battuto rigorosamente a coltello e condito con olio, sale e pepe, giusto l’essenziale perché il condimento non copra il sapore della carne. In ultimo, Laera aggiunge croccantezza con la puccia, briciole di pane di segale croccante, “sbattuto”, e speziato con finocchietto, anice stellato e cumino. Le erbette aromatiche fresche innevano il piatto finito.

La cucina pugliese fa capolino nello stile minimalista del cuoco, che trasforma i prodotti il meno possibile. «Per me è la migliore d’Italia – la cucina pugliese - per gli ingredienti che ha e per come li trattano; basta una fetta di pane di Altamura con un buon pomodoro o un semplice riso, patate e cozze per fare un gran piatto» spiega Nicola Laera, che ha saputo abbinare questa filosofia anche agli ingredienti montani creando piatti sapidi e diretti.
VS
 

Federico Zanasi: 4.478 sul livello del mare

4.478 s.l.m. è lo spaghettone di montagna di Federico Zanasi (in omaggio ai 150 anni dalla prima salita al Cervino). 4.478 sono i metri scalati 150 anni fa dall'inglese Edward Wimper per conquistare la vetta del Cervino passando dal versante svizzero.

In onore di quel 14 luglio del 1865 Zanasi, chef del ristorante Snowflakes a Cervinia, ha presentato un piatto di spaghetti con pochi ingredienti declinati in 101 modi. «E’ più facile lavorare con meno ingredienti per trovarne ogni sfumatura», spiegava il cuoco. Una pasta alpina dunque e un omaggio alla Svizzera e alla Val d’Aosta in una ricetta che ne contiene molte altre. Dolci cipolle dorate sono cotte nel burro e nel gruyere d’alpeggio assieme al burro ricavato cuocendo il lardo d’Arnad al vapore (così si sgrassa) e con salvia e rosmarino.

Ma la cipolla in questo piatto ha mille volti: liofilizzata, caramellata, fritta in olio di semi e in zuppa, secondo la tipica ricetta svizzera, frullata, ridotta e infine asciugata a 65°C in forno per creare una sfoglia di “pasta” da cui si ricavano delle tagliatelle.

L’altra pasta, gli Spaghettoni Felicetti, sono prima cotti in acqua e poi risottati assieme alla cipolla stufata aggiungendo formaggio e katsuobushi. Il piatto è ulteriormente aromatizzato con le varie preparazioni di cipolla e la polvere di alga kombu che da’ un tocco minerale e sapido.

Anche il pane si crede sale e invece di quest’ultimo Zanasi ha spennellato del pane di segale con l’olio in cui aveva fritto le cipolle, lo ha poi tostato a lungo e sbriciolato sulla pasta per un sapore ancora più deciso. Il tocco dello chef è un cucchiaino di uova di trota sulla vetta.
VS