Monograno Felicetti

Gentile {NOMEUTENTE}
Come sempre, l’ultima casella che viene riempita nelle nostre newsletter è quella del saluto. E’ così anche questa volta, al termine di una domenica trascorsa a Polignano, poco a sud di Bari, per presentare in serata XXL, 50 piatti che hanno allargato la mia. E oggi ancora di più, Il pranzo possibile da Tuccino, patron Pasquale Centrone. Appuntamento all’una per un’azione di bene, per raccogliere fondi a favore di chi fa ricerca contro la Sla, la tremenda malattia che da sette anni inchioda Pasquale alla sedia a rotelle.

Sono dunque in Puglia e leggendo la prima notizia qui sotto, firmata da Riccardo Felicetti, e ripensando in camera al primo piatto gustato a mezzanotte, delle orecchiette di grano arso, ho avuto la certezza che il mondo della ristorazione e della ricerca a esso legato sarà sempre in movimento. Per quando uno possa a volta pensare che meglio o peggio di così non possiamo mangiare, piatti, pensieri, sapori, tecniche, consumi varieranno sempre mutando i fattori in campo.

Lo scrivo perché devo a Pietro Zito la scoperta anni fa della pasta di grano arso, con il grande cuoco-contadino di Montegrosso d’Andria che ti raccontava tutto di un grano di recupero per gli indigenti perché tu potessi farti un’idea precisa prima di ordinarla o passare oltre. Ecco, stasera chi prendeva la comanda ha dato per scontato che tutti al tavolo la conoscessero – ed era vero -, ma la sensazione era come di conformismo. Quei piatti della tradizione che tutti, dal Gargano a Leuca, hanno e che tutti ormai conoscono a memoria. E quando difetti di originalità sei finito, urge reinventarsi.

Paolo Marchi, testi di Carlo Passera, foto di Brambilla/Serrani
 

Felicetti: alla conquista dei palati americani

Il 29 giugno scorso ho partecipato ai Sofi Awards di New York, il più importante concorso di prodotti alimentari di tutti gli Stati Uniti, giudicato da un pool di buyer e giornalisti importanti del paese. Hanno ricevuto premi e menzioni varie 33 prodotti (vedi la lista completa qui). Tra questi, sono stati menzionati due soli prodotti italiani: una crema spalmabile di pistacchi dalla Sicilia e un Aceto balsamico misto a succo di mela organica.

Non dubito certo della bontà di questi due prodotti ma sulle prime mi è venuto da scrivere che gli Stati Uniti non sono un paese per prodotti italiani. E non certo perché non è stata premiata la pasta - nel 2014 sono stato menzionato per lo spaghettone di matt e il rigatone di kamut, rispettivamente nelle categorie “pasta” e “organic products”. Il motivo di preoccupazione è che, al momento, il mercato e il palato americani - obiettivi importanti per ciascuno di noi - difficilmente sanno riconoscere il buono, ovvero i prodotti che sono assimilabili strettamente alla nostra tradizione, quella più autentica. Il trend è spostato in modo preponderante su tipologie di prodotto estremamente complesse, stereotipi che assecondano gusti che sono alieni dalla nostra cultura, costruita soprattutto sulla qualità massima, sulla naturalità e sulla semplicità.

Ma una cattiva notizia nel breve termine è anche un’ottima notizia nel lungo termine: se oggi manca negli Stati Uniti una degna cultura gastronomica, significa che abbiamo praterie sconfinate davanti per poterla diffondere. In che modo? Intanto, tenendo sempre alta la barra della qualità di tutto ciò che produciamo, nel totale rispetto (non nostalgico) della tradizione. Poi, stimolando la capacità delle istituzioni - l'Ice, Italian Trade Agency, e tutti coloro che promuovono a vario titolo i prodotti alimentati italiani all'estero - di avviare corrette politiche di lobby. Così potremo diffondere oltreoceano la percezione dei nostri prodotti e di tutte le meraviglie che possiamo fare con quelli.
Riccardo Felicetti
(nella foto, con il padre Valentino, "con le mani in pasta da 66 anni")
 

La pasta e fagioli di Antonia Klugmann

Nella lezione di “Identità di pasta” di venerdì scorso, la grande cuoca triestina del ristorante Argine di Vencò al Collio, al confine tra Italia e Slovenia, Antonia Klugmann ha offerto una splendida versione della Pasta e fagioli. «Ma naturalmente il nome della ricetta non va inteso con malinconia»., ha specificato in apertura. I fagioli, intanto, sono la sua passione: «Li coltivo personalmente e li raccolgo solo al culmine della maturazione. In questi giorni il caldo li ha un poco turbati ma pazienza». Ecco, parlare di stagionalità per Klugmann non ha senso: i ritmi non sono quelli che impongono i manuali o gli schemi precostituiti che impazzano su Internet ma la sua sensibilità, cangiante col meteo.

«Nel Triveneto, il fagiolo s’abbina tradizionalmente all’orzo o al farro. E di solito si aggiunge un terzo elemento carnivoro, lardo o guanciale, elementi di avanzo. Io ho deciso di puntare sulla lingua salmistrata, un classico delle mie parti. Il mio macellaio di fiducia la prepara in 2-4 settimane. Ma io non mi accontento: ho deciso di nobilitarla con un lavoro ulteriore, per la gioia dei miei cuochi». La disperazione dei sottoposti di Antonia ricorrerà spesso nella lezione ben cadenzata dalla giornalista Eleonora Cozzella: «Chiedo ai miei collaboratori quella sensibilità che consente a un prodotto di fare il salto. Sono molto severa al pass: se la lingua non arriva come la voglio io, la rimando indietro. Essere controllore è il mio perverso godimento».

E’ lo stigma che fa la differenza tra una cuoca e una fuoriclasse. E la pasta? «Fa la differenza anche lei. Amo i ditalini di farro Monograno Felicetti, li usavo tantissimo anche nelle zuppe a Venissa. In questo caso li cuocio per 4 minuti e mezzo in acqua bollente e poi la finisco in padella con la crema di fagiolo».

«Il piatto è una bomba», sentenzia dopo l'assaggio il decano Valentino Felicetti, «da 66 anni con le mani pasta». Ma non vedrete mai la cuoca gongolare dopo un complimento: «Nel tempo pensavo che mi sarei accontentata sempre di più, di diventare anche più comprensiva coi miei collaboratori», confessa, «Invece mi rendo conto di essere sempre più insoddisfatta e insofferente, una tendenza che ho e che so che devo controllare». L'accigliato perfezionismo non trasparirà di certo agli occhi del cliente dell’Argine: «Al mio compagno chiedo di omettere al momento del servizio tutti i passaggi faticosi che stanno dietro a ogni piatto. Il cliente non deve mai cogliere la fatica del cuoco. È lì solo per stare bene».

 

I Conchiglioni con conchiglie di Mantovani

Conchiglioni con conchiglie, uno scioglilingua di nome e di fatto, il piatto proposto da Fabrizio Mantovani del bistrot Fm di Faenza (Ravenna). La ricetta muove dalla tradizione, con una spruzzata di mare Adriatico, d’ispirazione francese, dove le lumache sono ben note e dove il cuoco, romagnolo di nascita, si è rimesso ai fornelli dopo una pausa da bassista nella “Frutta e Verdura Band”.

È nata prima la pasta o il sugo? Figlio di fruttivendoli, Mantovani tra le bancarelle si sente a casa e durante una gita al mercato del pesce di Bellaria ha conosciuto questo strano mollusco dalla conchiglia spinosa, il murice, ed è stato amore a prima vista. «I garusi - l'altro nome del murice, ndr - hanno una consistenza simile al rognone e un sapore forte e iodato, quando ho portato in cucina l’idea di sostituirli alla carne in un ragù di mare, è venuta da sola» spiega il cuoco. Alla scelta del mollusco si abbina quindi quella della pasta quasi a far “saltare” i murici da una conchiglia all’altra.

A modulare l’ispirazione del piatto anche forma e colore degli ingredienti; Form Follows Food, la Forma segue il Gusto, così recita lo slogan del progetto FFF curato dal cuoco stesso che, tra le tante passioni, annovera il design. La scelta è anche ispirata alla sua dieta, ormai da quattro anni priva di carne, e dalla geografia, che vede Faenza a un crocevia gastronomico e culturale d’ispirazioni culinarie.

La ricetta del ragù è quella tipica romagnola, fatta eccezione per la proteina scelta. S’inizia con il soffritto, poi il trito grossolano di murici (già puliti e sbollentati in acqua acidulata), la sfumatura di Sangiovese e gli immancabili pomodori pelati lasciati cuocere per ore infinite, cullati dagli aromi di ginepro e cannella.

Alle note silvestri e balsamiche dei molluschi ben si abbina uno zuccherino Riesling, un giovane Sangiovese toscano o addirittura quel piccolo e raro vitigno autoctono faentino, il Centesimino, in passato chiamato Sauvignon rosso. La musica continua sulle onde di Fm@rket, il nuovo progetto firmato Mantovani, un “natural market” di prodotti responsabili, non solo biologici ma sostenibili, da portare a casa o degustare in loco. L’appuntamento è dunque a fine settembre sulle stesse frequenze.
Valeria Senigaglia
 

Nicola Fossaceca: tutti al mare

Con i suoi Spaghettoni alle cicale di mare e ostriche, Nicola Fossaceca del ristorante Al Metrò di San Salvo (Ch) ha teletrasportato il padiglione di Identità Expo in riva al Mar Adriatico. Un piatto che idealmente nasce nella pasticceria di famiglia: nell’aroma di bombolone come acqua di colonia, comincia a cucinare servendo spaghetti allo scoglio e fritture di pesce ad accompagnare la birra servita nel locale, ma la sua cucina è più apprezzata delle bevande e il cuoco diventa chef.

A prendere all’amo Fossaceca e ispirare il passaggio verso la via del pesce gourmet è un libro di Moreno Cedroni, "Sushi& Susci", e una cena firmata dallo stesso autore che, assieme ad altri grandi cuochi come Mauro Uliassi e Maria Lombardi, è anche mentore di Fossaceca. Oggi Nicola applica la voglia di sperimentare alla magnificenza dei prodotti del Mar Adriatico.

Il ragazzo ha proposto un matrimonio tra ingredienti poveri, le cicale di mare, e di lusso e lussuriose, le ostriche. Una ricetta al profumo di sole e mare che abbina la freschezza del cetriolo all’aroma del limone e delle erbe aromatiche per esaltare la sapidità dei frutti di mare. Il piatto si odora prima di assaporarlo e per Nicola, chef di “naso”, è il bello di cucinare perché «Mi appaga di più l’odore del sapore, quando in cucina chiudo gli occhi e sento l’aroma del piatto è un attimo di pura gioia».

Il cuoco cuoce la pasta rigorosamente al dente e la fa “rilassare” in padella con il sughetto di ostriche, la adagia su un letto cremoso di cicale di mare frullate crude e la veste con ostriche crude. Le note ferrose dell’ostrica sono ben bilanciate dall’aroma del limone, del finocchietto che ricorda la campagna e del basilico che sottolinea l’estate per finire con peperoncino, dragoncello e cetriolo, ponte tra terra e mare richiamando le note dell’anguria presenti nelle ostriche. Il tocco finale è la nota croccante e golosa del pane saltato in padella che esalta la sapidità e dà un tocco di tradizione.
VS
 

Spaghetti e quinto quarto: Sabrina Tuzi

Sabrina Tuzi, cuoca della Degusteria del Gigante di San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno), è una classe 1984 ma già con tanta esperienza alle spalle. Tra i "fornelli in rosa" più interessanti del Paese, a Identità Expo ha puntato sugli Spaghettoni Pastificio Felicetti monograno Matt, «mi piacciono molto, amo gli spaghetti tenaci» (questo misura 2,3 mm di diametro, contro gli 1,8 di uno spaghetto normale).

Li serve con un “doppio quinto quarto”. Quello di mare è costituito dalle cazole (si chiamano così perché assomigliano a calzoncini), le sacche ovariche del pesce, un tempo cibo di scarto per i marinai, oggi vendute anche ai consumatori, senza troppa distinzione sul pesce d’origine. Nelle case sono usate spesso crude, per condire la pasta. La Tuzi invece preferisce lavorarle, «affinché assomiglino, come resa, a una bottarga. O a un formaggio pecorino». Vengono quindi sbollentate e poi marinate in sale, zucchero di canna e anice verde di Castignano, una varietà marchigiana molto aromatica, un po’ più piccola, con riflessi verdi (è la base per la famosa Anisetta Meletti).

Poi la chef prende tante buone erbe spontanee: cicorietta selvatica, crespigna, dente di leone, ortica, bietolina, rapa selvatica, pimpinella. Ne estrae l'aroma con l'estrattore. Le stesse erbe diventano anche un quinto quarto vegetale: le fibre rimaste dall'estrazione – solitamente buttate - vengono seccate in forno e diventano la base croccante per il piatto. “Nutrire il pianeta”, tema di Expo 2015, è anche l’utilizzo degli scarti...

Quindi s’impiatta la pasta aromatizzata alle erbe, si mettono fiori di malva e di prezzemolo a guarnire e si rifinisce con una finale grattatina delle cazole, come fosse una bottarga.
 

Vitantonio Lombardo: lagane e ceci, oggi e domani

La tradizionalissima Lagane e ceci, la ricetta presentata da Vitantonio Lombardo a Identità Expo, ha previsto una versione più raffinata: pappardelle all’uovo, senza acqua nell’impasto, prodotte dal Pastificio Felicetti. Subiscono una duplice cottura. Un terzo viene fritto, il rimanente bollito in acqua, «Recuperiamo così un’antica abitudine cilentana, quando le massaie stendevano la pasta, quella che si rompeva veniva fritta. È, in fondo, la stessa logica del Ciceri e tria salentino», spiega lo chef della Locanda Severino di Caggiano (Salerno).

Doppio Presidio Slow Food per le due qualità di ceci usate, diventa una crema da adagiare sul fondo, sopra si mette la pasta fritta che dona fragranze, consistenze e anche aromaticità diverse. Quindi ecco le pappardelle lessate e condite con una salsa a base di cipolla, cotica, rosmarino e Ceci neri della Murgia carsica, «una varietà che stava quasi per scomparire. Veniva coltivata insieme alle altre, però ha semi più resistenti e duri, che richiedono dunque tempi di cottura più lunghi. Per questo veniva poco a poco rimpiazzata da tipologie meno ‘impegnative’», fino alla riscoperta odierna.

L’impiattamento prevede infine un po’ di pancetta croccante sbriciolata, prezzemolo riccio spezzettato a mano grossolanamente e polvere di peperoncino per guarnire il tutto: il consiglio è di mischiare prima di addentare, con un doppio slurp come esito.

Perché questa ricetta? «Perché rappresenta benissimo il mio territorio, ma è rivista con gli occhi della modernità. Non a caso, è stato il primo piatto concepito alla Locanda Severino, appena venne aperta, nel gennaio 2009 (dal febbraio 2012 Lombardo ne è diventato anche il titolare. Nello stesso anno l’insegna è stata illuminata dalla stella Michelin, ndr). Poi ha avuto diverse evoluzioni». Lo chef è così: sospeso tra due opposte tendenze, il recupero e l’innovazione.
 

Polenta benedetta d'estate con Gaspari

Riccardo Gaspari, chef di El Brite de Larieto a Cortina d’Ampezzo (Belluno) porta un piatto d’altura, Tagliatelle al ragù di capretto su crema di polenta bianca veneta che fa strano in un giornata particolarmente calda di inizio giugno. Ma viene presto perdonato. Primo, perché lo giustifica così: «Rappresenta la nostra anima, la nostra cucina». Secondo, perché è solo una base molto cremosa, che regala note aromatiche più che gradi di troppo. Terzo perché, come giustamente osserva Eleonora Cozzella, il bravo chef moderno «sa combinare tutto quello che rappresenta la tradizione e il territorio, ma in modo creativo».

La pasta è una tagliatella Monograno Felicetti al grano duro Matt bio: una sola tipologia, nessun blend, per una farina che risulta molto aromatica e ad alto contenuto di proteine. I chicchi provengono da Sicilia e Puglia, mentre praticamente tutto il resto del piatto arriva da Cortina, strada per Passo tre Croci, l’indirizzo del Brite de Larieto, e dell’azienda agricola condotta da papà Flavio, c’è l’orto, l’allevamento di mucche, capre e maiali, il piccolo caseificio aperto da non molto, il laboratorio di salumeria...

Lo chef racconta la sua infanzia bucolica tra porcellini da accudire e caprette che fanno ciao, intanto procede con la ricetta. Tosta un po’ di farina di mais bianco, poi la cuoce come per farne una normale polenta, ma frulla per ricavarne una crema abbastanza liquida, che passa anche al colino.

Intanto il ragù sobbolle, la pasta pure, viene mantecata con burro (molto freddo per aumentare la cremosità) e poco Grana Padano. Sotto va la crema di polenta più qualche cialdina sbriciolata di un’altra polenta ottenuta da mais sponcio, una varietà di granoturco coltivato prevalentemente nella Val Belluna, a ridosso del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi. Infine tagliatelle, ragù, con ricotta salata e timo per aromatizzare il tutto.
CP
 

Con Martini la Puttanesca sale in paradiso

«Avrei potuto preparare una pasta con il caviale o l’astice, sarebbe stato semplice far bella figura». Invece no, Marco Martini di Stazione di Posta a Testaccio, Roma, ama nobilitare le tradizioni popolari. Così, ecco a Expo le Penne alla puttanesca, un piatto goloso, «di quelli che si fanno a mezzanotte quando si rientra a casa un po’ ubriachi e si scopre che il frigo è vuoto». Ma qualche cappero, delle alici, del pomodoro ci saranno sempre in dispensa, suggerisce Martini. Bastano quelli.

Ovviamente la ricetta tradizionale è sempre solo un punto di partenza, un punto di riferimento sempre un po’ mitizzato, «ho pensato alle mamme che vanno a comprare al mercato le polveri magiche per fare la puttanesca. Noi le abbiamo preparate home made». Le penne, «scelte perché non si usano mai», vengono cotte in un’acqua di pomodoro ottenuto passando all’etamina una sorta di panzanella di pomodoro crudo, olio, sale, pepe e origano, «un modo per introdurre qualche ulteriore elemento tecnico nel piatto, e poi il gusto si concentra straordinariamente».

Martini prepara quindi tre polveri, disidratando in forno olive di Gaeta, capperi e anche acciughe. Siamo all’impiattamento: alla base una salsa ottenuta cuocendo il prezzemolo in acqua bollente, passandolo poi nel ghiaccio per mantenere il colore verde e poi frullando il tutto. A fianco cucchiaini della polpa del pomodoro cui è stata sottratta l’acqua. Sopra le penne, guarnite con le tre polveri e un po’ di cerfoglio fresco.

Un piatto intelligente, tra i più richiesti alla Stazione di Posta, che vanta una cucina dove assommano 106 anni in 6.
CP
 

Alessandro Gilmozzi: linguine nel bosco

I piatti di Alessandro Gilmozzi del Molin di Cavalese (Trento) sono come lui: parlano sottovoce, ammaliano senza urli. Eppure, forse proprio per questo, risultano all’opposto raffinatissimi. Sono insomma straordinari figli legittimi, che rivelano il tocco magico del loro creatore: una sorta di celato incantesimo sembra consentire allo chef di padroneggiare con incredibile sapienza la scienza sottile dell’aroma. Sa maneggiare come pochi le erbe, le spezie, le essenze; ne crea combinazioni di fantasmagorica, esplosiva, sfavillante bontà.

A Identità Expo Gilmozzi ha deliziato tutti con delle Linguine di farro mantecate al burro aromatizzato, porcini crudi, cervo marinato ed essenza di menta, un piccolo capolavoro di virtuosismo in cucina. Lo chef prende la menta piperita dei suoi ruscelli e la centrifuga («Meglio se lentamente. Per arricchire il piatto di clorofilla, uso foglie e anche la parte alta del gambo; non quella bassa che è troppo amara»). Ne ricava un’essenza che conserva a 4 gradi in frigorifero. Poi passa alla carne, una splendida lombata di ferro che taglia a cubi di due centimetri di lato e poi marina con sale di Cervia, olio di ginepro e una polvere di rosa canina che va a donare sensazioni inattese, come fosse una paprika ma meno piccante e più profumata.

Gilmozzi sceglie linguine Felicetti al farro: «Mi piace perché è il più antico cereale coltivato dall’uomo. Uso molto questi tipi di ingredienti, specie per i miei dolci: faccio un gelato con tagliatella di kamut al burro affumicato al cardamomo, ilrumtopf (pasta cotta in uno sciroppo dolce-alcolico di frutta), i macarons di zucca, rosa canina e farro…».

Le linguine vengono mantecate nel burro aromatizzato con un trito di aglio senza anima, sedano, scalogno, senape, pinoli di cirmolo, sale di Cervia, pepe affumicato macinato al momento, porcini confit e speck. Tutte le componenti, tritate finemente, vengono amalgamate a un giallo burro di malga.

All’impiattamento le si affiancano i porcini crudi tagliati finemente, i cubetti di cervo, poi germogli di crescione di montagna e un poco di essenza di menta. «Voglio far mangiare ai miei clienti il bosco. Basta un semplice lichene per donare a una capesanta una straordinaria complessità dolce-amara».
CP
 

Andrea Aprea: golosissima calamarata

Andrea Aprea, chef napoletano del ristorante Vun, incluso nel Park Hyatt hotel di Milano, ha la pasta nel sangue e Gragnano, la patria dell’alimento italiano più famoso del mondo, nel cuore. A Expo si è cimentato con un formato napoletanissimo, la Calamarata, chiamata così perché ricorda gli anelli di calamaro.

«La Calamarata con genovese di vitello e mousse di pecorino allo zafferano», ha spiegato, «è un piatto più di pancia che di testa». È la bontà della domenica, in versione alleggerita: la genovese ricorre al vitello invece che al maiale o al manzo come da tradizione (e le parti più ricche di collagene, per dare consistenza al sugo). Le proporzioni rimangono invece quelle tradizionali, metà carne e metà cipolla – la Ramata di Montoro -, con la verdura a donare il tipico colore rossastro per via della caramellizzazione degli zuccheri durante la lunga cottura. Non c’è pomodoro!

Poi il cuoco prepara una mousse di pecorino romano, scelto perché è più sapido, «In questa ricetta non c’è altro sale», cui aggiunge gli stimmi dello zafferano. Infine qualche foglia di crescione acquatico, «che conferisce note piccanti e amare, mentre la genovese è dolce, il pecorino sapido, la pasta dona masticabilità. È un piatto molto goloso, con picchi aromatici intensi e che spinge a una bella salivazione». Detto in altre parole, ne mangeremmo ancora e ancora.
CP
 

Le Mezze penne a spreco zero di Franco Aliberti

Questo piatto lo firma Franco Aliberti del ristorante Èvviva di Riccione (ne ha scritto di recente Martino Lapini sul sito di Identità Golose). E' un piatto che eleva la zucchina a simbolo dello scarto zero, un piatto rappresentativo di una cucina eco-attenta. L'apparenza è quella di una pietanza di Mezze penne verdi su crema di zucchine. La realtà, una quaterna vegetale ricavata dalla stessa verdura. Gli steli per le mezze penne, il frutto per la crema, le foglie scottate e il fiore croccante. Con una spolverata di formaggio apparente di riso.
 

Apreda e l'arrabbiata vista da Mumbai

Le Penne Monograno Felicetti all’arrabbiata (Blend Spicy Bomba-y), il grandissimo classico della cucina popolare italiana, rivisitato da Francesco Apreda nei pranzi e nelle cene di Identità Expo, pochi giorni fa. Il cuoco del ristorante Imago dell’hotel Hassler a Roma ha anche una certa dimestichezza con l’India.

E si vede: «Ho dedicato questo piatto a Mumbai», spiegava, «La pasta viene cotta in un liquido estratto da peperoni arrostiti, pomodoro, poco aceto, sale e zucchero. Il Blend che utilizzo per questo piatto è a base di peperoncino indiano, pomodoro, semi di coriandolo, finocchio, paprica e buccia di lime. La pasta viene appoggiata su dello yogurt, lamelle di aglio nero, e un'insalatina fatta con cetrioli, mango e papaia. Un grande piatto estivo, molto fresco.