Gentile {NOMEUTENTE}
Lievità o Lievita? Con o senza accento? Ha senso in entrambi i casi, ma nel caso in questione ora l’accento ci vuole perché sinonimo di leggerezza. Lievità il nome di una nuova pizzeria a Milano, all’11 di via Ravizza, telefono +39.02.91328251, Lievità per l’appunto, pizza gourmet per la precisione. Ben venga in una città che nella pizza ha il suo punto debole. Qualcosa sta cambiando, ma si è appena all’inizio del cammino. Si mangia più facilmente bene sushi che pizze, ma guai disperare.

Subito i difetti: Lievità è rumorosa e piccola; il personale di sala arriva da altri settori e tu cliente lo avverti subito e ti armi di pazienza anche perché ha aperto da poche settimane. Però la pizza è buona, intensa e digeribile. Per me oggi il pizza-mondo si divide tra pizze digeribili e non, quegli ammassi mezzi crudi che ti lievitano nello stomaco, i cui autori andrebbero incriminati per offesa alla storia italiana.

In carta 18 proposte, poche e questo è indice di serietà. Non basta: mi piace all’ennesima potenza che la metà siano margherite, fiordilatte o bufala, pomodorini, basilico. Ogni pizza un pomodorino o un formaggio diversi. L’altra metà è stata chiamata Le gourmet estreme e si va da quella al pistacchio di Bronte fino alla Gambero Rosso (a crudo). Un inno continuo ai prodotti migliori. Vuoi patatine e wurstel? Peggio per te, cercatele.

Paolo Marchi, testi di Luciana Squadrilli e Carlo Passera
 

Pizza e pane in bianco e nero

Gli impasti di farina, acqua e lievito alla base del pane e della pizza hanno cambiato sfumature di colore negli ultimi 70 anni, passando dal scuro al chiaro e ora, viceversa, dal chiaro allo scuro.

Gli impasti scuri della guerra sono stati sopraffatti dalla diffusione delle farine sempre più bianche (e raffinate) del dopoguerra. Da qualche anno invece si assiste al ritorno delle sfumature più calde e più scure degli impasti di farine meno raffinate e dal sopravanzare di tecniche di cottura diverse rispetto al classico forno a legna. Ci sentiamo in gran parte responsabili di questo ritorno allo scuro negli impasti, avviato nel 2007 da Università della Pizza e Accademia del Pane, i progetti nati per sensibilizzare pizzaioli e panettieri all'utilizzo di Petra per ridare ai prodotti da forno il gusto della cucina dei nostri nonni in una chiave nutrizionale contemporanea. Ma l'obiettivo non era, e non è, quello di cambiare il colore, quanto quello di imprimere visivamente nel prodotto la sua diversità in termini di scelta degli ingredienti di base.

Perché è intuitivo il fatto che una farina meno bianca contenga anche le parti esterne del chicco di grano. E questo fatto richiede estrema attenzione da parte del mugnaio nella conoscenza dell'agricoltore e nella scelta del grano di origine (dov'è stato coltivato? quale trattamenti ha ricevuto durante la crescita della spiga? com'è stato conservato e poi trasportato?) perché se la farina è più scura dobbiamo essere sicuri che le parti esterne del chicco siano immuni da sostanze nocive per la salute dei consumatori. E quindi torna fondamentale la massima pulizia durante il processo che trasforma i chicchi in farina. Il ritorno allo scuro è indice di gusto e completezza nutrizionale e, nello stesso tempo, veicolo per sollecitare la conoscenza delle origini del grano.
Piero Gabrieli
 

Pizza, la monografia di Renato Bosco

“Differenze tra l’incontrare Renato Bosco e l’imbattersi in un vulcano in piena attività? Nessuna! Una fucina d’idee e progetti, mai fermo, ottimista e concreto; anche le temperature del magma e di un Renato (assai raramente) arrabbiato potrebbero forse avvicinarsi“ racconta ironico Matteo Maria Carminucci nella prefazione di Pizza, la monografia scritta da Bosco ed edita da Italian Gourmet diretta da Carla Icardi, sesto volume dopo quelli dedicati a pasta, riso, zuppe, cookies e pesca e firmati rispettivamente da Enrico Bartolini, Enrico e Roberto Cerea, Marco Sacco, Omar Busi e Claudio Sadler.

“Nel libro troverete ricette, metodi di lavoro magari abbastanza convenzionali per chi come me svolge questo mestiere da tempo o, forse, e lo spero, stimolanti per chi muove i primi passi” scrive lo stesso Bosco. Concetti ribaditi alla presentazione del testo, organizzata proprio a Identità Expo, nell’ambito della programmazione di Identità di Pizza. Quindi, per capirci: Pizza contiene un po’ la storia di Bosco, un excursus sulla sua attività professionale, perché già l’uomo di Saporé di San Martino Buon Albergo e della vicina Verona rimanda a un successivo volume per un doveroso approfondimento sulla sua materia preferita, il lievito madre.

Durante il cooking show a Expo ha dato un saggio straordinario della sua abilità, raccontando (e facendo assaggiare) un suo crunch, pizza a doppia cottura dal topping a tutta golosità: una base di burrata d’Andria, poi cipolla caramellata di Tropea, pancetta disidratata, curry e fagioli gialét della Valbelluna, una rara chicca – nonché presidio Slow Food – del suo Veneto, con pelle finissima e incredibile dolcezza, «praticamente ho usato l’intera produzione dell’anno scorso», ha ridacchiato lo spumeggiante Renato, che chiosa: «Mi ritengo fortunato a possedere ormai molte conoscenze tecniche sul mondo della pizza. E a poterle condividere, mettendole così a disposizione di tutti, con questo e coi prossimi volumi». Tutti gli impasti di Bosco sono realizzati con farine Petra.
CP
 

Identità Expo: Padoan, Lombardi e Franco Pepe

Oltre a Renato Bosco, del quale abbiamo parlato qua sopra, altri tre grandi pizzaioli hanno animato gli spazi pomeridiani di Identità Expo (e sarà la volta del giovane Massimo Gatti il prossimo 16 giugno, alle 17). Il primo non poteva essere che Simone Padoan, l’inventore della pizza da degustazione. Si è concentrato questa volta sul topping: prima raccontando la sua pizza Orto, ricca di verdure di stagione; poi interpretando a suo modo il tema di Expo, con una pizza “di recupero”. Ossia prima condisce la base croccante con un po’ di burrata, poi vi sparge una polvere ottenuta frantumando gli “avanzi” di verdure, disidratati: baccelli di pisello, timo origano e basilico, poi olive e capperi dalla forma imperfetta, bucce di pomodoro… «A I Tigli di San Bonifacio essicchiamo tutto questo lasciando le verdure sopra il forno, così non disperdiamo altro calore». Negli appuntamenti successivi spazio a Simone Lombardi e Franco Pepe.

Lombardi classe 1981, ha raccontato il percorso che da Città del Messico l’ha ricondotto in Italia, al Dry di Milano, chiamato da Andrea Berton. Vi propone focacce fermentate nel padellino o precotte a vapore, poi le pizze, 28 centimetri di diametro per consentire un percorso degustazione. Alcune sono “d’autore”: Calzone con scarola brasata, pinoli, ricotta di bufala e uvetta oppure Pizza alla pancetta arrosto con fiordilatte e pepe di Sarawak.

Pepe ha spiegato invece la sua Margherita sbagliata (nella foto) – nel senso che il pomodoro viene aggiunto solo alla fine, a crudo – d’immenso successo tra i buongustai che giungono al Pepe in Grani. E poi altre bontà doc, come la Pinsa conciata, che segue una ricetta del Cinquecento: il formaggio conciato romano viene abbinato alla sugna di Nero casertano, all’origano dei monti del Matese, al pepe, al basilico e, su suggerimento di Alfonso Iaccarino, ai fichi freschi (o, fuori stagione, a una confettura di fichi del Cilento).
CP
 

Coccia e il codice della pizza napoletana

Negli ultimi anni la pizza – a cominciare da quella napoletana, dopo secoli di immobilismo basato su un'assodata bontà – è stata oggetto di sperimentazioni, rivoluzioni, manifestazioni ad hoc e pure accese diatribe. I pizzaioli sono diventati star e ricercatori, sono nati libri e programmi tv. Mancava, però, un lavoro scientifico di codificazione e divulgazione “alta” sugli aspetti tecnici della pizza napoletana. Un'operazione necessaria di codifica.

Ci ha pensato Enzo Coccia – il geniale pizzaiuolo della Notizia – insieme al professor Paolo Masi, ordinario di Ingegneria dei processi alimentari presso l’Università di Napoli Federico II, e alla dottoressa Annalisa Romano, manager del Caisial del medesimo ateneo. Insieme, hanno a lungo lavorato al volume “La Pizza Napoletana…più di una Notizia scientifica sul processo di lavorazione artigianale” (edito in italiano e inglese da Doppiavoce Edizioni) che qualcuno ha già definito un vero e proprio “codice” della Pizza Napoletana.

Il libro, presentato lo scorso 30 maggio alla Reggia di Portici dagli autori insieme all’antropologo Marino Niola, autore della prefazione, è un prezioso compendio degli aspetti tecnici del lavoro del pizzaiolo – dalle proprietà chimico-fisiche delle materie prime alle diverse fasi di lavorazione – corredato da illustrazioni, fotografie, grafici e tabelle che ne arricchiscono la portata didattica e il rigore scientifico con cui è stato analizzato, per la prima volta, il lavoro dell'artigiano. «Siamo pizzaioli dentro – dice Coccia – chi fa questo mestiere ce l’ha nel dna, e questo ci gratifica profondamente. Ma abbiamo anche l'esigenza di dare una risposta scientifica alle domande che nascono dall'esperienza: tradizione, tecnica e ricerca scientifica sono anelli di una stessa catena».

Il libro è quindi una sorta di fondamentale “manuale di istruzioni” della pizza napoletana in cui sono stati sviscerati aspetti concreti – perché il sale rende più manipolabile l'impasto? Perché usare acqua calda lo rovina? – dandone spiegazioni scientifiche e soluzioni. Lettura consigliatissima non solo ai pizzaioli, ma anche a chi in pizzeria vuole capire il come e il perché di quello che mangia.
LS
 

Rovetta, una promessa nella Bergamasca

«Ho sete di sapere» racconta Alessio Rovetta rievocando il percorso che l’ha condotto a 20 anni ad aprire un proprio locale, lui che aveva studiato da perito elettronico ma manteneva la propria indipendenza economica fin da ragazzino lavorando in una pizzeria “tradizionale”. Oggi di anni ne ha 32 e da un paio ha scoperto l’Università della Pizza di Molino Quaglia, frequentando corsi che gli hanno cambiato, se non la vita, certamente la professione: «Cercavo da tempo qualcosa di diverso, amavo sperimentare, mi venivano tante idee, ma ero sempre stato autodidatta, mi mancavano quindi le basi tecniche per mettere in pratica ciò che mi frullava per la testa. Andai su internet e trovai chi mi poteva dare risposte». L’Università della Pizza, appunto: «Non avevo un euro, ma decisi di fare qualche sforzo e di iscrivermi. E’ stata la mossa giusta».

Oggi gestisce la Pizzeria dei Sette Ponti, un locale famigliare e accogliente a Carobbio degli Angeli, in provincia di Bergamo, due passi dalla sua Chiuduno; di scena sono la creatività e una competenza sugli impasti della quale va orgoglioso: «So fare più o meno tutto: le pizze con diversa idratazione, ho imparato a infornare anche quella in pala, ho capito l’idrolisi dell’amido di Beniamino Bilali, Rolando Morandin mi ha insegnato a preparare le colombe pasquali…». I suoi impasti più innovativi, per i quali usa farina Petra, cuociono per 6-7 minuti in un forno a legna, a 65°, «non è facile controllare la fiamma». Ottiene dischi dal bordo pronunciato, apparentemente di stile napoletano, «ma il cornicione è croccante mentre la parte centrale è più alta rispetto alle pizze classiche.

Condisce in tanti modi, da quelli più scontati (burrata e crudo) agli innovativi (stracchino delle Valle Orobiche e pancetta, o toma valdostana e cipolla rossa di Tropea). In aiuto gli viene un dna da buongustaio che è di tutta la sua famiglia: «I miei genitori non erano del mestiere, ma sono sempre stati buongustai. Rinunciavamo piuttosto alle vacanze, mai a mangiar bene».
(Nella foto, Rovetta con Gualtiero Marchesi)
CP
 

Napoli: Spicchi d'Autore, Ammaccàmm e Pizza a Portafoglio

Grande movimento nel mondo della pizza partenopea: la primavera 2015 fa infatti registrare diverse nuove aperture, tra nomi e volti noti e giovani promesse, che arricchiscono la mappa delle pizzerie napoletane.

Ha aperto lo scorso 22 maggio, in via Gino Doria 81 nel quartiere Vomero, Spicchi d'Autore, che punta tutto sulle tipicità campane di qualità, e non solo per quel riguarda la pizza. Tra i punti di forza del locale ci sono infatti i buonissimi “fritti aristocratici” ispirati alla cucina dei monzù – la cucina nobile partenopea del '700 nata dall'incontro tra cuochi napoletani e abitudini francesi da monsieur -e messi a punto con le ricette del maestro monzù Gerardo Modugno che ha lavorato per oltre quarant'anni tra palazzi nobiliari e circoli prestigiosi di Napoli: dalle uova alla monachina alla crostatina di tagliolini alla Finanziera, sono tutti da assaggiare. Alle pizze invece, proposte nell'originale formula “a spicchi” (potendo quindi scegliere come comporre la propria pizza tra le tante varianti classiche e gourmet) ci pensa il giovane Mimmo Esposito, che può vantare già diversi anni di esperienza tra cui quelli alla N.C.O. – Nuova Cucina Organizzata (progetto legato al recupero dei terreni confiscati alla criminalità organizzata).

Ha aperto invece a via Toledo 246, nel cuore storico di Napoli, Pizza a Portafoglio di Gennaro Salvo (nella foto di Luciano Pignataro). Il pizzaiolo torna in città dopo aver avviato con successo il locale di Gino Sorbillo a Milano, proponendo pizze classiche napoletane nella versione più verace e popolare (anche nei prezzi), quella da strada: 'a libbretta, margherita, marinara, bianca (prosciutto cotto, panna, burrata e mais) e margherita con salame piegate a portafoglio, appunto, secondo un'arte antica tramandata da generazioni, da mangiare camminando lungo le vie del centro. In alternativa, calzoni ripieni e fritti golosissimi.

Arriva invece a inizio giugno a Pozzuoli (alla periferia nord di Napoli) Ammaccàmm – voce del verbo “ammaccare”, il gesto con cui si stende manualmente la pizza napoletana – la nuova pizzeria voluta dall'avvocato e imprenditore Nicola Taglialatela (già creatore di diverse pizzerie “napoletane” in giro per l'Italia) con la coppia d'assi formata dai “pizzaioli veraci” Salvatore Santucci e Giovanni Improta.
 

Salvatore Kosta, il tecnologo di Villa Giovanna

Non è una figura molto comune quella del “tecnologo della pizza”, anzi potremmo forse dire di averla inventata noi. Ma è altrimenti difficile inquadrare Salvatore Kosta e il lavoro che sta facendo a Villa Giovanna, il locale alle pendici del Vesuvio dove aveva lavorato per qualche tempo Gianfranco Iervolino portandovi il suo concetto di pizze gourmet.

Tecnologo alimentare, Kosta ha iniziato ad appassionarsi di lieviti e impasti (solo Petra) per curiosità personale, ma con approccio professionale: partito creandosi il suo lievito madre con un fermento lattico avuto dalla Facoltà di Agraria di Portici, ha finito con il mettersi un forno a legna nel giardino di casa per provare cotture e risultati. Quando Francesco Formisano, titolare di Villa Giovanna, gli ha chiesto di collaborare ha dovuto rivedere dosi e proporzioni ed è entrato in team con gli altri collaboratori del locale: Kosta studia e prepara panetti e impasti – di diversi tipi, da quello con lievito madre alla biga fino al classico impasto diretto della tradizione napoletana – che poi vengono stesi da Salvatore Balzano, farciti da Francesco Sorrentino e infornati da Antonio De Martino.

Un perfetto lavoro di squadra, che torna al punto di partenza con Kosta che gira per i tavoli durante il servizio a spiegare ai clienti cosa stanno mangiando, e perché non devono aver timore di una notte insonne: alla base dei suoi impasti (proposti a rotazione, ma in alcune sere si trovano entrambi) c'è infatti sempre una lunga maturazione a temperatura controllata: «Di qualsiasi impasto di tratti, per me è fondamentale che resti almeno 48 ore in frigorifero per essere digeribile: prediligo farine forti, di tipo 1, che possano “reggere” la lunga maturazione, ma studiando le tabelle di forza riesco ad avere buoni risultati anche con le 00».

Ma quali sono le differenze da impasto a impasto? «Con il lievito madre si ha quel quid in più sia nel gusto, con una leggera acidità, sia per la riguarda la digeribilità, grazie alla maggiore attivazione delle proteasi della farina. Ma con la biga si sviluppano aromi più intensi, che si ritrovano nel profumo del cornicione. In ogni modo, si tratta sempre di pizze di tipo classico partenopeo tanto alla vista quanto all'assaggio, con un impasto scioglievole ed elastico». Per quanto riguarda le pizze, molti dei condimenti sono rimasti quelli che erano già in menu ma la squadra di Villa Giovanna sta mettendo a punto anche nuove proposte come la Pizza Slow con pomodori San Marzano Miracolo di San Gennaro, alici di menaica, capperi di Salina, fiordilatte di Agerola e olio extravergine bio.
LS
 

Guglielmo Vuolo e la pizza di mare

Chi è nato e cresciuto al Sud conserva forse ancora il ricordo delle “freselle” (ciambelle di pane biscottato) bagnate con l'acqua di mare e poi condite con pomodoro, olio e basilico, alla base delle merende estive di una volta. Oggi questioni di sicurezza alimentare sconsigliano la pratica, ma c'è chi ha pensato di usare l'acqua di mare – opportunamente depurata – per impastare la pizza napoletana: Guglielmo Vuolo, bravissimo pizzaiolo partenopeo di lungo corso che oggi sforna le sue pizze prevalentemente da Eccellenze Campane (mentre la pizzeria di famiglia a Casalnuovo è affidata alle mani già esperte dei figli Enrico e Valerio).

Qualche tempo fa, Vuolo – in Puglia per collaborare con il chirurgo vascolare Vincenzo Di Donna, presidente dell'Università Popolare di Scienze degli Stili di Vita – ha conosciuto la Steralmar, azienda specializzata nella produzione di acqua di mare depurata per il consumo umano. Da lì è nata l'idea di provare a usarla per l'impasto della pizza, che – dopo 5 mesi di sperimentazioni – viene presentata ufficialmente l'8 giugno da Eccellenze Campane con un convegno dedicato all'Acqua d’a-mare, dopo l'”anteprima” alla manifestazione Cooking for Art.

Ma cosa determina l'uso dell'acqua marina? «Il risultato finale è del tutto simile alle mie pizze “classiche” – spiega Vuolo – anzi, l'impasto è leggermente più leggero e più saporito, nonostante non aggiunga altro sale: l'acqua di mare è ricca di sali minerali ma contiene solo il 36% di cloruro di sodio, il che è un vantaggio, per esempio, per chi soffre di ipertensione». E tecnicamente, cosa cambia? «Non essendoci il sale che rende la maglia glutinica più forte, non si può andare oltre le 12-14 ore di maturazione; io uso lievito di birra o criscito (l'impasto “di riporto” di tradizione napoletana ndr) e sono comunque sufficienti a rendere l'impasto perfettamente digeribile. Anche la cottura – altro elemento chiave di una buona pizza - richiede un po' più di attenzione, perché l'acqua di mare tende a far “colorare” prima il cornicione». E i costi? «Non penso di aumentare il prezzo delle pizze e comunque alternerò i due tipi di impasto; l'acqua Steralmar non ha un costo proibitivo e vuol dire che risparmierò sul sale: di solito uso quello di Nubia».

Va detto che quello di Vuolo non è il primo esperimento sulla pizza con acqua di mare: già due anni fa Massimo Giovannini dell'Apogeo di Pietrasanta aveva presentato alle Strade della Mozzarella una pizza a base di farina Petra 3 e integrale impastate con acqua marina Steralmar, mentre Giovanni Mandara la propone alla Piccola Piedigrotta di Reggio Emilia, ma usando la spagnola Agua de Mar. Restano però il primato nell'ambito della pizza napoletana, e soprattutto la bontà della pizza di Vuolo.
LS
 

Casa del Pane, il mestiere di Verdesca a Molfetta

Oggi di anni ne ha 40 e s’è preso un’altra cotta, «però sono single», quindi il mistero va risolto semmai andando a Molfetta, dove la vittima di Cupido lavora duro («Ma non mi pesa, perché adoro darmi da fare per migliorare. Anzi, mi diverto »), nella sua Casa del Pane, l’indirizzo dove sfoga la passione per l’alta qualità, proponendo lievitati d’ogni tipo a una clientela che via via comprende sempre meglio la sua arte: «All’inizio (ha convertito tutta la sua produzione a uso di Petra , ndr) è stato un po’ difficile, soprattutto col pane, perché è un po’ più scuro di quelli venduti qui in zona, c’era diffidenza. Ora molti hanno capito e si servono solo da me». Piace, a Verdesca, l’idea di un prodotto “vivo”, non standardizzato, artigianale, che ogni giorno risulta un po’ diverso perché del tutto naturale, «non uso miglioratori, conservanti o coadiuvanti: solo farina, acqua e lievito madre».

Salvatore ha iniziato, si diceva, a 12 anni, lavorando in un panificio sempre a Molfetta (lui ha origini leccesi ma è nato e cresciuto in questa città a 25 km da Bari). A 20 ha aperto una pizzeria col fratello Giuseppe, che ora fa lo chef altrove; 10 anni fa ecco nascere la Casa del Pane, quando ha rilevato un vecchio forno e l’ha rilanciato, puntando su un continuo percorso di ricerca. Una tappa è stata, appunto, il primo incontro con Petra. Da allora le cose sono cambiate e ha proposto, assieme alle ricette tradizionali con semola di grano duro, una linea di pane caratterizzata dalle qualità delle farine da macinatura integrale del grano tenero: «Sono riuscito a dare una marcia in più ai miei prodotti».

Da non perdere le sue pizze, al metro o tonda d’asporto. Classica? Forse nei condimenti, ma l’impasto è «bello, soffice, croccante», e quando lo dice sembra battergli forte il cuore. C'est l'amour…
CP
 

Berberè, una grande parmigiana all'Expo

Nella foto, la pizza con melanzane, pomodoro e Grana Padano che potete gustare per tutto il mese di giugno da Pizza and Cereals a Expo, spinoff temporaneo di Berberé, ben noto indirizzo con sedi a Castel Maggiore, Firenze e Bologna. Lo spazio di Rho, allestito in partnership con Alce Nero si trova nel Padiglione del Biologico, dietro quello dell'Oman. E', certamente, una delle migliori pizze di Milano, e l'altra buona notizia è che presto Matteo Aloe, patron Berberé, aprirà anche in città, probabilmente in zona Isola.
 

Capperi che pizza, un'idea di Lievità a Milano

Capperi che pizza, proposta di Lievità, pizzeria gourmet in via Ravizza 11 a Milano, telefono +39.02.91328251. Zero formaggio, è il trionfo di Pomodorini Gragnano dei Monti Lattari, Capperi di Salina bio, Olive nere Caiazzane, Aglio rosso di Nubia, Origano del Matese e Basilico fresco. Una signora pizza.