Monograno Felicetti

Gentile {NOMEUTENTE}
Nella notizia in apertura di questo numero di Identità di Pasta, Riccardo Felicetti usa qui sotto un termine molto vero e molto bello: condivisione, la condivisione, energica e felice, che ha regnato nella sala della giornata pastaiola.

Ma vado oltre proprio guardando la foto che lo riprende, lui in giacca e cravatta, con Massimo Bottura a sinistra e Giuseppe Di Martino a destra, mezzo oscurato da Stefano Vegliani. Stanno spazzolando una pentola di pasta al pesto non-pesto. Ecco, metteteci una padella di spaghi davanti agli occhi e noi italiani non ci tratteniamo più. C’è, importantissima, la condivisione delle idee e poi c’è quella, altrettanto importante, della forchetta che gira, un gesto, un movimento molto nostro, molto tricolore, che abbiamo inventato e che non si improvvisa.

Ci sono tante popolazione che mangiano prescindendo dalla forchetta, coltello e cucchiaio sono ben più importanti, ma i quattro rebbi sono fondamentali per gustare la pasta al suo meglio e sembra che un italiano ne abbia sempre una in tasca.

Paolo Marchi
, testi di Carlo Passera, foto dei piatti di Francesca Brambilla e Serena Serrani
 

Felicetti e l’anno della condivisione

Dalla foto qui sopra (da sinistra a destra, Massimo Bottura, Riccardo Felicetti, Giuseppe Di Martino e Stefano Vegliani, ndr) emerge un concetto che per me ha contraddistinto più di tutti la sesta edizione di Identità di pasta: condivisione.

Abbiamo condiviso tutti assieme, per un’intera giornata, momenti di grande sostanza e interesse attorno a un tema che non è certo esaurito, anzi, con ancora grandi margini davanti e orizzonti tutti da esplorare: l’idea che la pasta possa essere interpretata secondo schemi che attingono dal meglio della tradizione per riproporla in chiave moderna.

Una visione evoluta che dia una volta per tutte dignità a un prodotto solo fino a pochi anni fa tollerato a malapena. Oggi provo grande soddisfazione ad aver sostenuto il progetto di fondo di Paolo Marchi, primo artefice di questa giornata. L’auspicio è che si parli presto di pasta non solo nella giornata di Identità Milano, ma per tutto l’anno. E nelle cucine dei più grandi ristoranti italiani e all’estero.
Riccardo Felicetti
 

Marianna Vitale: accordi per la pasta tiepida

Con la sua Impepata di cozze (foto) di Marianna Vitale va al cuore del Sud – come l’insegna del suo ristorante di Quarto, Napoli – passando però da Johann Sebastian Bach: il compositore tedesco fu autore de Il clavicembalo ben temperato applicando un innovativo (per l’epoca) sistema di accordatura, che consentiva di apprezzare maggiormente l’estensione acustica; così, parallelamente, la Vitale racconta il suo “maccherone ben temperato” accordando la pasta in modo diverso, 5-10° in meno rispetto alla temperatura di servizio standard (che è attorno ai 55°), per regalarci le nuove note gustative di una squisita, complessa “minestra di pasta” – vari formati, come una sorta di Mesca Francesca – che incontra una crema di cozze («La necessaria struttura proteica»), una di peperone e una di riccio di mare crudo – ossia note dolci e sapide - più l’acidità del succo di limone.

Bomba di gusto, cui la diversa temperatura di servizio è perfettamente funzionale: «Servendo il piatto più freddo del solito, riesco a far percepire in modo più netto i vari sentori che voglio sottolineare». Gran bella proposta, ma avevamo apprezzato anche l’idea precedente, spaghetti freddi con sugo di pomodoro caldo e maionese agrodolce (con aceto di birra e miele): la pasta è arrosto, ossia prima cotta normale, poi spadellata con aglio olio e acqua di cottura, infine alternativamente scottata in un’altra padella (in modo da far susseguire agli choc termici le successive nuove idratazioni con il condimento) per dare un senso di arrostito e affumicatura.

C’è un ricordo di pizza, gli spaghetti mostrano una crosta leggermente bruciacchiata che rimanda al cornicione di una margherita. «Il mio obiettivo è sempre quello di servire una pasta che sia succulenta e stimoli la masticazione – spiega la chef – Questo infatti attiva gli enzimi salivari, che attraverso le papille mandano impulsi al cervello».
 

Costardi: i re del riso allargano gli orizzonti

Prospettive diverse, visuali inconsuete a Identità di Pasta. Come quelle che ci offrono i fratelli Costardi, Christian e Manuel, che abbandonano il mondo tutto di riso, del quale sono dominatori incontrastati, per affrontare l’altro primo piatto tricolore… ma per loro non è mica un primo piatto! Diventa semmai snack, ad esempio uno speciale Spaghetto Western in cui il sostantivo è il primo termine e significa pasta cotta per infusione – com’è spesso, se non sempre, nella loro cucina - in un brodo aglio e peperoncino, poi fritta. Si trasforma così in uno spuntino croccante “da cinema”, con salsina barbecue d’accompagnamento.

Da cinema, ma in senso metaforico, è anche l’omaggio che i due dedicano alla Milano di Expo 2015, vera e propria riedizione del classicissimo ossobuco in gremolata: la Pàca Felicetti – ossia un pacchero più piccolo e gentile – viene riempita di midollo garantito Cazzamali. Base di salsa di verdure, poi la gremolata, pistilli di zafferano e sale Maldon, non resta che leccarsi i baffi.

Finale dolce, con Oriente, «l’idea è quella d’applicare alla pasta logiche e lavorazioni di altrove», spiega Manuel, che d’altra parte sulla pasta dolce ha lavorato anche in passato. Così prepara dei noodles (cotti al vapore, soffiati nell’olio bollente e poi raffreddati sul ghiaccio) e li tuffa in un brodo di cioccolato speziato (cardamomo, pepe…), più scorza d’arancia e una spolverata di granita di cioccolato bianco, ottenuta con l’azoto liquido, come fosse formaggio grattugiato (foto). L’importante è uscire dagli schemi del consueto, «gli italiani sono troppo abituati a pensare alla pasta solo come primo piatto».
 

Le linguine di Fantin parlano un perfetto giapponese

L’ispirazione per la pasta dolce di Manuel Costardi viene dal Giappone, come anche lo chef– peraltro italianissimo, nato in Veneto - che strappa applausi a scena aperta. Luca Fantin, miglior cuoco per la guida Identità Golose 2015, lavora al ristorante Bulgari di Tokyo, situato nella Bulgari Ginza Tower, e coniuga stile italiano e straordinarie materie prime nipponiche.

Così ci fa conoscere delle incredibili ostriche giapponesi grandi quanto una mano, che giungono da un villaggio, Mie, a sei ore dalla capitale: vivono in acqua purissima un poco di mare – salata - e un poco dolce, mangiano alghe kombu, vengono raccolte a mano, poi rimangono due settimane in acqua demineralizzata.

Lui le usa per condire delle linguine con lattuga di mare (ossia l’insalata lattuga fatta marinare otto giorni e disidratare con sale marino, poi in parte cotta nella stessa acqua dove bolle la pasta – diventa dunque un’infusione – e poi tagliata a julienne a guarnire le linguine come fosse un’alga, della quale ha sviluppato sentori e texture; in parte viene invece seccata due giorni con un ventilatore per ricavarne una polvere salata). L'ostrica viene frullata con scalogno, olio e vino per farne una crema che manteca le linguine.

Prima ancora viene servita però un'ostrica affumicata con bucce di mela e lattuga, con cristalli del sale della lattuga stessa (foto). Infine Fantin cuoce sottovuoto (70° per 24 ore) guancia di wagyu, coda e tendine. Ne ricava un ragù pazzesco che condisce maltagliati scottati con burro e rosmarino e poi conditi con verza croccante e pomodoro jap, una tipologia che richiede pochissima acqua e dunque concentra dolcezza e acidità.
 

Berton e l'arte di rigenerare conchiglie

Anche Andrea Berton, alta scuola classica, è uno chef che “nasce con il riso”, più che con la pasta. E racconta un aneddoto: «Non usavo in cucina la pasta secca. E’ un prodotto che ho dovuto affrontare dopo aver perso una sfida con Riccardo Felicetti: si era in montagna e gareggiammo tra noi, io sono un buon sciatore, ma non pensavo che lui sciasse meglio di me...».

Lo chef cuoce la pasta al 40%, poi la abbatte a meno 30°C e la rigenera direttamente nel sugo di cottura, al momento di servirla: così ha la possibilità di poterne preparare anche molte porzioni, in modo veloce e senza che venga meno il miglior punto di cottura. Propone due piatti che contemplano come ingrediente centrale il porro («Si presta a molte declinazioni»), con esiti che vanno dal delizioso in su. La verdura è ridotta in polvere (arrostita e poi essiccata) e sparsa su rigatoni che reinventano la classica e spesso deludente ricetta "ai frutti di mare", con cozze, vongole e fasolari fatti aprire direttamente nell'acqua di cottura, più una maionese di prezzemolo ottenuta da una riduzione del brodo di pesce e olio d’arachidi.

Oppure il porro dà il proprio aroma a un brodo, come spesso ultimamente nella cucina di Berton, che ai brodi si sta dedicando con passione. Va a bagnare delle conchiglie (il formato di pasta, intendiamo) con una crema alla liquirizia e latte di soia, germogli freschi di lenticchia e salsa all'acetosella (foto). Il brodo è ottenuto tostando il porro, poi immergendolo di acqua e ghiaccio: il liquido così ottenuto viene filtrato e abbattuto. Le conchiglie, a loro volta abbattute con quel procedimento che abbiamo detto, sono rigenerate proprio in questo brodo.
 

Enrico Croatti, impastare verso l’infinito

Ha le idee davvero chiare il giovane Enrico Croatti, riminese doc che impiatta al Dolomieu di Madonna di Campiglio. Per lui "Sana intelligenza" è, ad esempio, andare "A mani nude verso l'infinito", titolo della sua lezione a Identità di Pasta che richiama l'incredibile ascesa dello scalatore Paul Preuss nel 1911, quota 2.883 a mani nude, solo e senza funi, lui che era pure poliomelitico.

L'ascesa di Croatti passa invece per due piatti. Il primo è gustoso e propone accostamenti inediti: Rigatoni kamut con ricci di mare e testicolo di toro(foto), più una sorta di "midollo di mare" ottenuto emulsionando due parti di midollo e una di ricci. Viene poi incorporato facendolo assorbire in un pane – di quello raffermo che rimane in dispensa - fatto saltare in padella.

Il secondo piatto proposto è il Ricordo di coniglio alla paesana, doveroso omaggio a una terra, il Trentino Alto Adige, che ha accolto lo chef e lo ospita. Protagonista è di nuovo la Pàca Felicetti, che va incontro però a un destino imprevisto. Viene infatti cotta come sempre, ma poi passata nello macchina per la pasta dopo essere stata spolverata con una farina ottenuta macinando la Pàca tostata stessa (110° per 3-4 ore). Se ne ottiene così una sorta di Pàca destrutturata, un leggero velo di pasta che sposa il coniglio (le cosce e le spalle brasate in casseruola, la sella macinata a crudo e poi impastata con le frattaglie, in modo da ricavarne una sorta di salsiccia, il cui fondo di cottura verrà poi concentrato) con olive taggiasche, rognone marinato con vin santo e cipollotto e crosta di grana croccante.
 

Genio Scabin: amatriciana in pentola a pressione

Spettacolare Davide Scabin, l'ormai riconosciuto imperatore della pasta (e racconta di quando iniziò a lavorarci: anno 2008, andò da lui «un signore e mi chiese perché non tenevo alcun piatto di pasta secca in menu. Risposi: perché è banale. Tornò dopo sei mesi con un pacco della sua pasta e mi disse: "La sbanalizzi, la prego"». Era Riccardo Felicetti).

Lo chef di Rivoli con il consueto istrionismo ci consegna tre idee geniali: 1) la pasta in burnia, ossia sottolio in vasetto: da porre in dispensa, è pronta da condire, «nel 2011 con Spaghetti pizza margherita mettevamo rapidamente la pasta nell'olio per provocare uno choc termico. Ora gliela lasciamo e si conserva perfetta». Rimane infatti al dente per qualche giorno, «perché lo sia per più tempo ci sentiamo l'anno prossimo». Mito assoluto; 2) il "pongo di pasta", ossia una pasta stracotta e poi frullata, diventa una massa che si può lavorare a piacere. In passato Scabin vi ha ricavato soufflé, sofficini o splendidi bomboloni che non assorbono l'olio. Questa volta ci fa un taco; 3) la pasta (di formato medio-piccolo) cotta nella pentola a pressione, con il suo sugo, «e non dite che non so cucinare».

Tre i vantaggi: è una cottura veloce, in 11 minuti uno straordinario rigatone all'amatriciana è servito; spreca meno acqua, viene utilizzato solo il 18% di quella che normalmente ci serve per bollire la pasta. Scabin calcola un risparmio di 17 miliardi di litri in Italia, in un anno; va oltre i 100° facilmente, scatenando la reazione di Maillard, ma non esaspera il prodotto, mantenendo i 120° costanti: «Si generano reazioni diverse nella scissione degli zuccheri. E' interessante, svilupperemo molto questo sistema».
 

E’ gluten free il bauletto di pasta di Mantuano

«Non dobbiamo arrenderci a chi gestisce l'italian sounding all'estero, agli ingredienti finto-tricolori senza qualità» aveva ammonito Davide Scabin dal palco di Identità di Pasta, raccontando la sua ancor giovane esperienza newyorkese con Mulino a Vino: «E’ sbagliato pensare che “tanto là non capiscono la differenza”: io faccio assaggiare agli americani il gusto tricolore vero, e loro impazziscono. Capiscono subito la differenza!».

Dopo di lui è stata quindi ad hoc l'ode al prodotto italiano vero di Tony Mantuano, che col suo Spiaggia di Chicago impiatta alta cucina nostrana da trent'anni e ospita da sempre anche Mr e Mrs Obama, che festeggiò lì l’elezione a presidente: «Faccio educazione del gusto, spiego cos’è l’eccellenza della Penisola a tavola e la faccio mangiare. Gli esiti? Siamo a buon punto con l'olio extravergine, in alto mare con l'aceto balsamico di Modena...».

Attento alle intolleranze, prepara col suo sous chef Chris Marchino (evidenti le origini di tutti e due: sono cumpaisà) due squisitezze: Linguine di farro con foglia di broccolo, pinoli, aglio, grana padano e aceto balsamico di Modena (foto), e poi un golosissimo Bauletto di pasta fatta con farina di funghi (addensata con la xantana), che racchiude formaggio fresco e va condito con abbondante burro e tartufo nero. Magari non leggerissimo, con tutto quel burro e il formaggio che trasuda, ma certamente gluten free.
 

La pasta-cous cous di Viviana Varese

Tocca a Viviana Varese, che condivide il successo del suo Alice con tutto il suo staff, c’è persino una persona “addetta ai sogni”, e fornisce le otto parole chiave della crescita professionale in (alta) cucina: amore e passione, responsabilità, altruismo, rispetto, attenzione, organizzazione, senso critico. E' una formula (av)vincente, ma poi serve anche un poco di pazzia: quella che è necessaria ad esempio a concepire Follia, re-interpretazione della classica cacio e pepe.

I due elementi sono resi liquidi: dunque acqua di pepe, ottenuta in infusione di sette tipi di pepe diversi (20 grammi per un litro) e poi acqua di pecorino (3 ore a 75°, filtrare e addensare). Bagnano splendidi gnocchi multicolore, cotti al forno e ricavati addensando con la radice giapponese kuzu sei verdure frullate: spinacio, rapa rossa, rapa bianca, carota gialla di Polignano, cavolo viola e peperone. Da servire tiepidi.

Freddo, invece, l’antipasto di pasta proposto dalla chef, «perché per me la pasta servita come primo piatto deve essere calda, poche storie». Ecco allora il Cappellaio matto (foto), ovvero un cous cous di pasta e broccolo, con crema di broccolo (broccoli, olio e aglio), polpettine di broccolo e acciughe impanate con farina di pasta, cuore di gambo di broccolo a tocchetti ripassati nel burro e spuma di bagna cauda (sifonata, «l’aglio lo sbollentiamo cinque volte per evitare spiacevoli conseguenze sull’alito», spiega divertita la Varese).
 

Bottura sventola bandiera italiana. Di pasta

Massimo Bottura sogna un valle del Po pulita come era una volta, un delta del fiume ricco di flora e fauna... Ne scatta quindi una fotografia: commestibile. Per ricordare l’odore sprigionato dalla legna che brucia nel camino nei casoni dove si lavoravano anguille appena pescate e alzavole dopo la caccia, tosta la farina con cui comporre ravioli («Contenitori di idee. Ma dicono anche chi è che li ha preparati, da dove viene», dice lo chef) che riempie proprio di anguilla, in questo caso cotta sottovuoto a bassa temperatura, con la sua parte gelatinosa che affiora nell’abbattitore.

Annaffia infine il tutto di brodo di alzavola, addirittura un poco di concentrato di melograno, e ironizza sull’incapacità di tirare la pasta come si deve fuori dai confini nazionali (due anni fa un suo piatto, Ravioli di porri, foie gras e tartufi, aveva un preciso sottotitolo: Sogno di un francese di fare la pasta come un italiano). Poi prepara una pasta al pesto senza pesto (cotta in acqua di basilico, condita con la crema che si ottiene per affioramento di un infuso di parmigiano, più la crema di pinoli per la mantecatura finale), prima del piatto clou: Lo spaghetto che vuole diventare una lasagna. Il primo viene cotto, frullato, unito in impasti diversi con pomodoro, spinaci/bietole e parmigiano.

Ne ricava una pasta che essicca ottenendone un sottilissimo velo tricolore, vera "bandiera italiana " di pasta che passa poi in un grill speciale a conferire «quei sentori un po' bruciati della crosta della lasagna, la parte più buona». L'ex spaghetto sventola sul piatto avendo alla base un ragù di coda, guancia e lingua di vitello e una crema leggera di parmigiano: «E' una lasagna-fiore all'italiana».
 

Lo Spaghetto all'arrabbiata di erbe di Biagiola

Il piatto in foto è lo Spaghetto all’arrabbiata di Michele Biagiola, uno dei piatti più applauditi presentati nella giornata di Identità Piccanti. Le riflessioni che hanno dato origine a questi du spaghi suonano esattamente così: «Calpestiamo la terra e le erbe senza renderci conto di quel che abbiamo sotto i piedi». Nelle sue mani l’assunto amaro si è trasformato in 7 note di piccantezza. “Non siamo nemmeno più il primo paese al mondo per consumo di pasta. Perchè ci siamo ficcati in testa che fa ingrassare, eppure ci inorgogliamo di tutto questo risottare, moltiplicando amidi”. E pasta sia, allora. Base olio, aglio, peperoncino e conserva fatta in casa (anzi a Le Case di Macerata) di pomodoro giallo “perché aderisce meglio”, è il trucco anti-risottature dello chef. Da questa base tenue e gialla parte letteralmente un viaggio con tanto di traiettoria definita, lo spaghetto avvoltolato per lungo nel piatto si mangia da sinistra verso destra, a tappe scandite da sette erbe per altrettante note di “arrabbiatura crescente”, appunto.

Si parte dalla rucola “un amarore riconoscibile, pungente e fresco”, poi pepe “più speziato”, poi crescione d’acqua “scandisce la prima pausa, perché malgrado la piccantezza ancora maggiore, è come dissetante, ti prepara al passaggio successivo perché ha una maggiore freschezza”. Un’erba quasi acquatica, che nasce a ridosso di sorgenti o zone particolarmente umide, e solo laddove l’acqua è chiara fresca dolce e cristallina. “Il fatto che possiamo raccoglierla nella nostra azienda mi inorgoglisce”, sorride lo chef. Il viaggio prosegue, altra forchettata, spaghetti e senape “è brassica comune, terribilmente infestante, ne cresce ovunque e sa nettamente di senape”, ed ecco come l’occhio lungo del cuoco muta in benedizione le bestemmie dei contadini, in un tacito patto di mutuo soccorso.

Avanti c’è il nasturzio “di piccantezza ancora più forte e ancora più netta”, quindi l’artemisia “la chiamano l’erba del futuro, per le sue miracolose proprietà anti-tumorali. Per me ha un altro richiamo, la capacità di anestetizzare il palato per la sua forza”. Non è tutto. Gran finale in assenzio, ultima erba altri versi “è il picco più pungente del piatto”, spolverate di suggestioni maledette e zenzero tritato. Non servono istruzioni per l’uso della forchetta, ma solo un poco di attenzione.
Sonia Gioia
 

Lo Scammaro e l'orgoglio colatura di Torrente

Dell’alimento principe della tradizione italiana si è parlato ben al di fuori della giornata di Identità di Pasta (e di Identità Piccanti, vedi notizia qui appena sopra). Il piatto in foto è lo scammaro che Pasquale Torrente del ristorante Al Convento di Cetara (Salerno) ha presentato in chiusura di una lezione tutta dedicata alla Colatura tradizionale di alici di Cetara, nella giornata di Identità Estreme.

Scammaro deriva dal verbo napoletano “scammarare”, col significato all’opposto di “scammarare”, che significa “mangiar di grasso”. Lo scammaro, insomma, è la frittata che il personale ecclesiastico consumava in periodo quaresimale, “fuori dalle camere”, cioè “senza carne”. La frittata di spaghetti con olive, capperi e acciughe della tradizione partenopea, fritta secondo la tradizione, con Torrente diventa cotta al forno e arricchita dagli aromi della colatura di alici. «Che è di Cetara e basta», ha rivendicato il salernitano, «nulla in contrario con le salse di pesce che fanno altrove. Ma chiamiamo le cose per il loro nome». Giusto.
(foto di Lisa Casali)
 

Le linguine di farro dei Piccolin a Cortina

Appena finisce un’edizione di Identità Golose a Milano, giusto il tempo di mettere ordine nella carte e si riparte. La presentazione venerdì scorso a Cortina di XXL, 50 piatti che hanno allargato la mia vita mi ha offerto l’opportunità di andare a cena anche all’Ariston dei fratelli Piccolin, Fabrizio in sala e Roberto in cucina, non ancora 80 anni in due, telefono +39.0436.866705. Mi ha positivamente impressionato la filosofia dello chef, che lo portano a proporre una cucina saporita e ricca, ma anche leggera e digeribile.

Nella foto il piatto che Roberto non può mai togliere dalla carta, anche ora che non è certo il momento ideale per i pomodori: Linguine di farro Felicetti Bio con pomodoro crudo, rucola e filetti di mandorle. Si fanno mangiare con piacere.
PM