Monograno Felicetti

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Tranquillizzo Riccardo Felicetti che nella notizia pubblicata qui sotto si chiede "Cosa mai potranno fare i relatori l’anno prossimo?”, tale la straordinaria qualità delle lezioni di Identità di Pasta 2014. Tema: La pasta secca.

E’ sempre così: quando il livello di un evento è straordinario, a caldo è difficile immaginarsi qualcosa di migliore. Poi però, passato il clamore della diretta, metabolizzati i vari momenti e tutte le sensazioni, si pensa a scenari futuri, a orizzonti e sentieri nuovi che portino di nuovo in orbita chi è interessato a quel determinato argomento.

Sarà così anche stavolta perché quando parli di pasta, sei solo sulla soglia di un mondo che non si esaurisce con i formati secchi. Senza contare che non sempre siamo davanti a una prima portata così come è importante anche studiare il rapporto tra pasta e sugo. Chi dice “pasta e basta” si castra.

Paolo Marchi, testi di Andrea Cuomo, foto di Francesca Brambilla e Serena Serrani
 

Felicetti: oltre il primo piatto all'Italiana

Alla fine di ogni edizione di Identità di Pasta mi trovo a fare un breve riassunto di quanto successo e mi chiedo: "Cosa mai potranno fare i relatori l’anno prossimo?”. Il crescendo di entusiasmo dimostrato dagli chef che si sono avvicendati sul palco e delle tantissime persone che hanno assistito alle lezioni quest’anno mi ha fatto pensare che era necessario ridare onore e dignità alla pasta secca, su tutte le tavole d’Italia e del mondo.

Quello che abbiamo visto creare va oltre il concetto di “primo piatto all’Italiana”, non lo mortifica, anzi ne esalta il valore culturale e tradizionale, ma dimostra che se le radici della tradizione sono profonde e solide, i rami della ricerca possono allontanarsi senza perdere il contatto. Grazie Paolo, grazie a tutti voi di Identità Golose, grazie a Eleonora Cozzella ma soprattutto grazie ai fantastici 8 relatori che ci hanno fatto trascorrere una grande giornata di pasta: quando il frutto del proprio lavoro è esaltato in questa maniera, non si può che essere felici.
Riccardo Felicetti
(nella foto, accanto alle firme di tutti i relatori della quinta edizione di Identità di Pasta).
 

Mauro Uliassi, quando il grano si fa duro...

La verità, scabiniana, è ormai assodata: la pasta può essere anche un primo. E badate: anche. Perché poi sul palco della Sala Blu 1 della quinta edizione di Identità di Pasta, all’interno delle decima di Identità Golose, s’è vista in ogni portata: antipasti, secondi, dolci. L’evento, realizzato come sempre in collaborazione con il pastificio trentino Felicetti, non ha avuto frontiere né limiti, salvo quello di riabilitare una volta per tutte la pasta secca, che tanti vorrebbero meno adatta all’alto bordo rispetto a quella fresca. Un altro luogo comune franato nel corso del lungo martedì milanese.

Il manifesto della pasta di grano duro l’ha redatto subito Mauro Uliassi, protagonista del primo intervento. Lo chef di Senigallia ha confessato la sua predilezione per una materia prima che pure rispetto alla pasta fresca presenta il difetto di una cottura prolungata che fa da moltiplicatore al rischio di errori. Ma quando il grano si fa duro, i duri scendono in campo, e Uliassi ne adora la masticabilità.

Dettate le regole base (1 litro d’acqua e 10 grammi di sale per 100 grammi di pasta; e cottura per metà tradizionale e per metà in padella con un sugo “lento”) ecco apparire la Zuppa di patate affumicate con pesce arrostito, in cui la pasta in realtà si fa solo le ossa. Eccola protagonista nelle Linguine Antonio Mattei, dedicate a un amico scomparso, compagno in uno storico viaggio in Polinesia in cui la koinè adriatica di Uliassi si colorò una volta per tutte di esotismo: e infatti compaiono gli aromi del lime e del cocco, e una granseola fa la parte del crabe de cocotier, una sorta di astice di terra.

E poi un Fusillone con fegato di seppia, ricci di mare, cicoria frullata e battuto di acetosa, acetosella e rabarbaro, miracolo di equilibrio tra gusti differenti. E un’altra acrobazia, il Mezzo rigatone con alici salate, tartufo nero e ciauscolo (foto). Quando si dice iniziare con il piede giusto.
 

Sasajima, siamo tutti umamisti

Il fatto, però, è che noi Italiani facciamo fatica a considerare la pasta un piatto davvero universale, tanta diffidenza nutriamo nei confronti di chi cerca di interpretarla in modo “open mind”. Ci vuole coraggio e curiosità per accettare la versione umamista della pasta da parte di Yasuhiro Sasajima, chef del Ghiottone, ristorante italiano di Kyoto. Uno che confessa ridacchiando che il figlio di due anni ama “moooolto” di più gli spaghetti del riso.

Umamista, dicevamo. Sì, perché Sasajima è convinto che il quinto gusto tipicamente orientale si sposi perfettamente con il dolciastro del carboidrato italian style. Nascono così i maccheroncini che Sasajima cuoce in brodo di pollo con un alga, riempie con pollo tritato, scalogno, erba cipollina, sale e frigge in un filo d’olio per poi accompagnare a una purea di pollo e porro e a un uovo cotto in acqua termale (a 63°C, piatto nella foto).

Certo, qualcuno in sala storce la bocca quando sente del Grana Padano accostato al gambero rosso, alla meringa morbida di rapa e allo yuzu, un nippoagrume, nelle linguine che seguono. Ma l’assaggio toglie ogni dubbio e ci lascia con qualche pregiudizio in meno. E quindi più liberi. Grazie, Yasuhiro.
 

Bartolini, si fa presto a dire tradizione

Il ritorno alla tradizione (ma fino a un certo punto) si celebra con Enrico Bartolini, un toscanaccio che si destreggia nelle nebbie brianzole di Devero a Cavenago Brianza. Autore di un libro dal titolo definitivo (“Pasta”. What else?), Bartolini spiazza tutti rompendo ogni regola di ricette che sono l’abc della cucina casalinga, eppure salvandone l’essenza.

La pasta aglio, olio e peperoncino – un classico dell’around midnight – finisce inghiottita in un biscotto che sconcerta, diverte e alla fine appaga (foto). Ancora più hard la trasgressione nel più citato tra i primi nazionalpopolari, la Carbonara: della quale fa un backup eliminando la faticosa masticazione e riassumendone gli ingredienti in un tuorlo con sorpresa. Un passo ancora avanti e si sfida il più ancestrale tabù della pasta italiana: la “scottura”.

Nella pomodoro&basilico la pasta viene infatti soltanto evocata sotto forma dell’amido rilasciato da una pasta fuori tempo massimo che serve a legare il succo di pomodoro che poi assume la forma di una gelatina. Il finale è più confortevole: uno Spaghetto all’anguilla che riempie la Sala Blu1 di un’irresistibile affumicatura.
 

Alija, caserecce made in Bilbao

Vertigine. E’ quello che si prova assistendo all’esibizione di Josean Alija, uno che porta l’avanguardia del Guggenheim Museum di Bilbao, dove si trova il suo Nerua, nella nostra bocca. Alija è il cantore della “muina”, parola basca che riassume il concetto di nucleo, essenza. Così ha intitolato il suo libro.

E in nome della muina nobilita la pasta con il solo prenderla in considerazione, ne esalta in senso filosofico l’essenzialità, l’emozionalità, il suo autoraccontarsi in senso storico e geografico, la sua necessità di pochi e definiti ingredienti. E poi ci sono gli aspetti più fisici: la consistenza, la prestanza tattile, quel sapore di grano secondo forse solo alla crosta del pane.

Le Caserecce con peperone di Anglet e baccalà sono un piatto ingannevolmente semplice, che nasconde un arcobaleno di sapori nella cottura della pasta in tre brodi diversamente aromatizzati. Poi le Caserecce con ricci, eucalipto e pepe nero che trasmettono una ieratica emozione. E infine riecco la Carbonara in versione Franck O. Gehry: spaghetti di rapa bianca, tuorlo d’uovo, strisce di pancetta iberica e noce moscata.
 

Giuseppe Iannotti, Sannio superstar

Esistono luoghi vicini e lontanissimi. Luoghi che esistono meno di altri, che si trovano in atlanti stampati con l’inchiostro simpatico. Uno di questi è il Sannio, uno dei tanti “Far South” d’Italia che non fanno mai notizia. Racconta Giuseppe Iannotti di Kresios a Telese Terme, la prima insegna stellata nella storia della ristorazione della provincia di Benevento, che qualche tempo si presentò nel locale una signora che, dopo aver letto la bella notizia sul giornale, si era sciroppata 25 chilometri per vederla, quella stella. Un aneddoto che fa sorridere, ma soprattutto dice molto su quanto sia lontana l’homeland di Iannotti dall’empireo gourmet.

Figuriamoci poi se anche un campano come lui si mette in testa di declinare la pasta come antipasto (la Penne&Salmone che cita la cucina anni Settanta con un rigore filologico che riscatta la provocazione pop), come un primo (la Fagioli&Ostriche della foto, che riassume la filosofia del “pochi ingredienti, tanti attributi) e perfino come un dessert (il tagliolino cannolato che diventa un’enciclopedia dei sapori sanniti: mele annurche, nocciole e Strega Alberti). Avanti così.
 

Scabin, la pasta come semola l’ha fatta

Pasta nuda. E’ la tentazione osé di Davide Scabin di Combal.zero a Rivoli, alle porte di Torino. I vestiti ci sono, e sono pure sexy. Ma stanno accanto, ammonticchiati in un angolo come dopo un amplesso. L’idea, dunque, è quella di presentare la pasta – purché grandi firme e grandi formati – come semola l’ha fatta, con a fianco pietanze che non sono semplici condimenti. Come del resto la pasta non è solo un contorno come da discutibile tradizione tedesca.

Altro teorema, quello della pasta “in punta di coltello”, servita cioè con due posate. E, perché no?, con i chopstick: come nella pasta “street food” con insalata (e non “in” insalata), dove l’utilizzo delle bacchette ha un valore ontologico, costringendo a riflettere su quanto sta avvenendo nel bicchierone che si ha in mano. Altra citazione un po’ “junk”, quella dei nachos serviti con una bagnacauda alla piemontese nei quali vanno intinti in quella che potremmo definire la “scarpetta Felicetti”.

Infine la pasta diventa pongo da modellare a mo’ di arancini e sofficini da riempire a piacere. Il sogno, però, è quello di uno Spaghetto al pomodoro e basilico. Pare facile. «Non l’ho mai messo in carta – confessa lo sfrenato Scabin – perché per me è la cima della montagna. Forse con quello concluderò la carriera». Insomma: il primo e l’ultimo.
 

Niederkofler, Carbonara in alta quota

Pasta di alta quota è quella di Norbert Niederkofler, alpinista e gentiluomo. Uno che non ama le scorciatoie: l’ultimo, estremo progetto è che al St Hubertus del Rosa Alpina di San Cassiano vengano serviti solo piatti realizzati con prodotti delle vicine montagne. Affrontare spaghetti e rigatoni diventa un’arrampicata dolomitica: “se po’ ffa’”, certo, ma bisogna essere molto bravi.

Per questo NN incoraggia il ritorno della coltivazione del grano nelle valli alpine, che ha rischiato il grado zero. Le sue Linguine di kamut Felicetti finiscono la cottura in un ragù di vitello poi arricchito da una ricotta affumicata locale, da chips di latte, da funghi conservati sott’olio e da un’emulsione di erba cipollina e prezzemolo. Niederkofler va in controtendenza e rifiuta l’idea della pasta a tutto campo: per lui è e resta un primo.

Per confermarlo propone la sua idea altoatesina della Carbonara: il guanciale si fa speck, il pecorino è soppiantato dal Graukaese (formaggio magrissimo perché fatto con il latte già sfruttato), le uova sono di quaglia. In fondo ne abbiamo viste di più sfacciate. Ma non ne abbiamo mangiate di molto più buone.
 

Klugmann, stregata dall'amido

La quinta di Identità di Pasta si chiude con l’esibizione della cuoca da combattimento Antonia Klugmann, friulana spiaggiata nella laguna veneziana (Venissa, sull’isola di Mazzorbo). La piccola chef – una che lavora di sottrazione anche nel suo modo - quasi confessa di essere ossessionata da questo elemento misterioso e quasi alchemico, «mai uguale a se stesso ma anzi capace di mutare in molti modi nel corso della cottura».

Antonia sciorina tutte le suggestioni e le grammatiche di quella terra di confine che è la sua Trieste nello Spaghettone Cavalieri con castagne tostate e bollite, crescione d’acqua (nella foto), l’amatissimo burro francese di Isigny per il quale butta in Laguna ogni sospetto di chilometro-sero (e meno male!) e un mix di spezie che lei compone da sé bazzicando i mercati (il suo preferito? Quello di Lubiana).

Altro piatto crogiolo in cui crogiolarsi, i Tubetti con cavolo nero appena sbollentato, polvere di cavolo nero, acciughe e una spuma al Cren (alias rafano). E’ proprio vero: non c’è strada più lunga e tortuosa di quella che porta alla semplicità assoluta. Vero, Antonia?
 

Crippa, Mancini e l'avanzata della pasta secca

Che la pasta secca stia conoscendo una nouvelle vague senza precedenti è testimoniato anche dal germogliare, in regioni storicamente mai pasta-oriented, di pastifici che fanno le cose sempre meglio. Con metodi “artigianali”, diremmo, se l’aggettivo non prestasse il fianco a una serie di equivoci, che cercheremo di sbrogliare nei prossimi numeri della newsletter.

Una settimana fa, Enrico Crippa e la famiglia Ceretto hanno ospitato al Piazza Duomo di Alba un manipolo di giornalisti per una cena concertata con Massimo Mancini, produttore di pasta a Monte San Pietrangeli, nell’entroterra fermano delle Marche. Il piatto in foto ha la dicitura ufficiale di Spaghetti al ragù ma a scavare nella sostanza salta fuori che il ragù è ricavato da carne trita di fassona e che il rosso non viene dal pomodoro ma dal peperone di Senise, solanacea orgoglio delle profonde latitudini lucane.

E lo spaghetto? È uno spaghettone: stessa lunghezza ma 2,6 mm di diametro, un accrescitivo di 4 millimetri in più. Il lato interessante è la sua carta d’identità: nasce dal grano duro di sottospecie turanico (per i cultori di tassonomia latina, Triticum turgidum turanicum, la stessa del marchio Kamut) ed è originario della regione del Khorasan, nel Nord-Est dell’Iran, con storici attecchimenti in Italia e nel Mediterraneo. La particolarità delle linee 17 e 38, quelle selezionate dagli agronomi di Pasta Mancini, è che il glutine non è aggressivo, quindi facilmente digeribile anche da chi soffre di disturbi alimentari. E che regalano una piacevole carnosità alla masticazione.

Un’espressione di golosa intelligenza, insomma, che peraltro irrompe ancora una volta, dopo il binomio Felicetti/Scabin, in una regione (il Piemonte) da sempre legata a doppio filo alla tradizione della pasta fresca. Non che fresca e secca debbano per forza rivaleggiare, possono convivere benissimo, come convivono benissimo in tanti menu. Ma l’avanzata della seconda procederà sempre più spedita se spinta da produttori sempre più consapevoli del prodotto che trafilano.
GZ