Monograno Felicetti

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Nella prima notizia di questa newsletter, Riccardo Felicetti ci ricorda che oggi si celebra a Istanbul il World Pasta Day, la giornata mondiale della pasta. Scrive il produttore trentino: “Esistono 130 pastifici distribuiti in tutt'Italia e 400 formati di pasta”. Ecco il segreto del vero intenditore: andare alla scoperta di più formati possibile.

Potrebbe suonare scontato, siamo italiani, ma non lo è affatto: quanti ne conoscono 30 per filo e per segno? Non è nemmeno il 10% ma dubito che tanti saprebbero rispondere in uno o due minuti. Temo che finiamo, soprattutto per pigrizia (che spacciamo per mancanza di tempo), con il mangiare tre o quattro tipi diversi, salvo lamentarci della monotonia a tavola. Sarebbe bello che i cuochi italiani iniziassero a mettere in carta più tipi, cercando i sughi più appropriati per appassionare i loro clienti. Chiedo l’impossibile?
Paolo Marchi
 

Istanbul, Aidepi e il World Pasta Day

Oggi, venerdì 25 ottobre, si celebra a Istanbul, in Turchia, il World Pasta Day. L’evento si svolge dal 1995 e coinvolge tutte le associazioni di categoria delle principali nazioni produttrici, con lo scopo di affermare la cultura e il consumo globale della pasta nel mondo. Io sono qui in veste di presidente del gruppo pasta di Aidepi, Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane.

Il 25% della pasta mangiata al mondo viene prodotta nel nostro Paese, top producer. Dietro a noi Stati Uniti e Turchia. Proprio gli Usa che, oltretutto, celebrano anche il National pasta month, un mese intero dedicato al nostro alimento, ospiteranno la prossima edizione a New York. Nel corso della giornata analizzeremo insieme il mercato mondiale della pasta e del grano duro, la nostra materia prima di riferimento. Nonostante le voci che ogni tanto si sentono, l'utilizzo della pasta è in continua crescita in tutto il mondo. E gli scienziati confermano che i suoi valori nutrizionali, il bilanciamento tra carboidrati e proteine vegetali, l'indice glicemico ne fanno l’elemento ideale per qualsiasi genere di dieta.

Oggi i pastai italiani affermeranno soprattutto l’unicità della tradizione e della produzione della pasta italiana, costruita su 600 anni di storia, di passione, di famiglie, di grandi capacità e tecnologie. Intendiamo ribadire che la pasta non è una commodity, un prodotto ovvio. Al contrario, è un alimento speciale come pochi. Esistono 130 pastifici distribuiti in tutt'Italia e 400 formati di pasta e proprio questa varietà fa sì che esistano profonde differenze percepibili tra un prodotto e l'altro. Proprio questa è una ricchezza inesauribile, che ci spinge a difendere la pasta italiana in ogni occasione possibile.
Riccardo Felicetti
 

Tutta la pasta a Identità New York

Quanta pasta a Identità New York, tante forme e tante sapienze, anche una sorpresa perché nella cena di sabato 5 ottobre Massimo Bottura ha presentato spaghetti che erano tali nel formato ma certo non nell’anima visto che erano ricavati da una “patata che voleva diventare uno spaghetto”, in fondo riuscendovi.

Ancora più sorprendente la cacio&pepe del Combal.zero. Con Davide Scabin rimasto in Italia per una gamba fratturata da poco, ecco a Manhattan Beppe Rambaldi che al termine della lezione di Mario Batali (ravioli) e Cesare Battisti (penne ai peperoni) ha offerto un imprevedibile bombolone, impensabile perché salato e per il ripieno: la salsa dei classici tonnarelli romani. E la pasta, Felicetti a essere precisi? Stracotta, lavorata e usata al posto della farina. Un risultato felice anche a livello di leggerezza dell’impasto.

Sempre Rambaldi ha preparato per la prima cena, venerdì 4, la Scarpetta. Non si tratta di un nuovo formato di pasta, bensì dell’italianissimo gesto di raccogliere con un pezzetto di pane il sugo rimasto nel piatto. Grande idea, con una bagna cauda tiepida nella fondina e un pugno di conchiglie in una ciotola, da prendere con le mani, una alla volta, per pucciarle nella zuppa. Un gioco che ha messo di buonumore perché a tavola meno “messe cantate” più divertente è.

Spaghetti infine, di semola di grano duro, per Sara Jenkins. La titolare di Porsena e di Porchetta, una casa in Toscana con tanto di ulivi e olio suo, preparando una sua pasta al pomodoro, ha detto due cose da sottolineare. La prima: “Chi non capisce i pomodori, non può capire la cucina italiana”. Verissimo. Poi, preparando il sugo con sei o sette tipi diversi di pomi d’oro ha pensato ai suoi connazionali: “In America adorano annegare la pasta nel sugo, la porzione deve essere metà e metà ma poi però senti solo la salsa. Io invece penso che la pasta debba restare in primo piano e quando la mangi la si deve sentire”. Vero pure questo, a patto sia di autentica qualità.
PM
 

Scabin e la moltiplicazione della Cacio e pepe

Della grande lezione di Davide Scabin a Host (tema: “La tecnologia che fa risparmiare le trattorie di nuova generazione”) abbiamo già scritto diffusamente qui. Avevamo lasciato in sospeso il discorso sui piatti di pasta.

Il cuoco torinese brandiva uno spaghetto precotto, pronto in frigorifero e già al dente, «ma in questo caso il costo del lavoro sarebbe altissimo perché non esistono ancora macchine economiche adatte allo scopo». «Vorrei lo stesso stimolarvi», ha rilanciato al pubblico, «perché ho appena compresso lo stesso spaghetto in una pasticca larga 4,5 e alta 2 cm. Pasticche di spaghetti: le butti in acqua col sacchetto e ce le hai ordinate come quando erano in scatola».

D’accordo, siamo sulla luna (magari con Luca Parmitano). Ma torniamo a terra, a calibrare gli scontrini: «Tu, trattore», ecco l’anatema, «se compri colla, cucinerai colla: una pasta importante non deve semplicemente farsi bollire, deve cuocersi. Deve maturare, non spaccarsi, rovinarsi, sfaldarsi. Quello che risparmiate alla fonte vi tornerà sui denti con le sedie vuote in trattoria. Fare un grande spaghetto alle vongole, replicabile per 300 persone, è possibile. Basta aver paura di serializzare».

Ma è anche possibile «Cucinare una Cacio e pepe che non “stracci”, che non raggrumi cioè il formaggio, diventando una mappazza indistinta, un accidente piuttosto frequente se le porzioni da preparare sono anche solo più di 4. Facendo come? Cuocendo per infusione: 2 minuti ad acqua che bolle e 9 in infusione. E con la Cacio e pepe squeeze, che mutua lo stesso sistema del ketch-up di McDonald’s, un concetto che non invento io ma esistente dal giorno in cui apparvero i club sandwich». È la Cacio Combal (nella foto di Stefania Ciocca), fatta con Spaghetti Monograno Felicetti, un signor pecorino e l’eterodossa scarola, un piatto concepito per fare 5, 10, 100 cacio e pepe senza che formazioni di fresbee al formaggio. Un piatto-progetto buono per tutte le illuminate trattorie a venire.
 

Milone, il formaggio c'è ma non si vede

Dal 18 al 22, Identità Golose ha concertato una serie di lezioni a Host, il Salone internazionale dell’ospitalità professionale. Il leitmotiv? “Cuochi duepuntozero”, l’innovazione portata in cucina grazie a tutti quei macchinari - più o meno complessi - che ogni giorno permettono ai cuochi di ottenere il meglio dalle diverse cotture e dalle diverse preparazioni che applicano agli ingredienti.

La pasta ha avuto una parentesi importante, con Scabin (leggi sopra) ma anche con Christian Milone, cuoco della Gastronavicella della Trattoria Zappatori di Pinerolo (Torino). Ex ciclista professionista, ha tirato la volata del pomeriggio di giorno 2.

«Ho iniziato a 25 anni ma ho dovuto davvero allenarmi a stare in piedi perché prima o pedalavo o dormivo». Imparato a star ritto, ha subito deciso di rivoltare la preparazione degli Gnocchi ai 4 formaggi dei genitori in un piatto di pasta buono, gustoso e senza la pesantezza classica. I formaggi sono tutti a latte vaccino: toma blu piemontese, Grana Padano 24 mesi e Seirass (il quarto verrà aggiunto alla fine: è l’acqua eliminata) e vengono imbustati per 2 ore sottovuoto (più 5-6 di riposo), escamotage che consente di estrarre il gusto del formaggio, con la farina di tapioca che interviene ad addensare.

Il formato? I rigatoni, per la grande tenacia e la capacità di raccogliere il sugo. Il pepe di Sichuan spinge bene il formaggio, sgrassa e pulisce ulteriormente il tutto. Un piatto 2.0, ovvero «di quelli che ti arrivano a tavola e non ti imbarazzano». La tecnica al servizio del sapore, che occulta all'atto finale il formaggio ma anche tutta la fatica fatta. (foto di Stefania Ciocca)
 

Bologna, nasce la Bottega dei Portici

Non bastavano le kermesse concorrenti di Bologna e Modena, che hanno riacceso la querelle sulla paternità di una ricetta iconica. Anche i Portici, unico ristorante stellato del capoluogo emiliano, hanno deciso di infilare in pasta le mani dello chef, il campano Agostino Iacobucci, sempre attento agli spiragli fusion con la città dotta e grassa. È nata così la Bottega dei Portici (foto di Stefano Rossi), contigua al ristorante, dove sono in vendita tortellini freschi con ripieno a crudo, preparati a mano da 5 sfogline a vista e a ciclo continuo, nonché sacche del brodo di prammatica e miniporzioni da asporto in contenitori termici (l’acquisto è possibile anche online su www.labottegadeiportici.com).

Sull’inaugurazione, che ha coinciso con i festeggiamenti per il lustro di attività del ristorante, ha sfilato una parata di stelle: accanto a Vito e Fausto Arrighi. C’era Massimo Bottura: «L’essenziale è considerare criticamente il passato. Quindi Parmigiano Reggiano, prosciutto, un po’ di mortadella e pochissima noce moscata, che in passato serviva più che altro a coprire i difetti. Alla Francescana le dimensioni sono due, quella media che piace ai modenesi e il dito mignolo del centro di Bologna. A confezionarli è un giapponese, sulla base di una ricetta di Lidia Cristoni rivista da mia madre. E a chi mi chiede: ‘Crudo o cotto?’, rispondo: ‘Basta che sia buono’»: il corollario definitivo a Lévi-Strauss.

E Niko Romito: «In Abruzzo abbiamo tante ricette di brodo e di pasta ripiena, che io adoro: l’essenziale è aggiornare il software della tradizione regionale italiana», magari con l’antivirus del talento. Il padrone di casa Agostino Iacobucci ha spiegato: «Quando sono arrivato i tortellini si compravano da fuori, per prepararli in casa abbiamo chiesto aiuto alle cuoche di casa fino a centrare la ricetta ideale». Gran finale con le sfogline sotto i portici e una torta a forma di spianatoia per l’ombelico più sexy della storia.
Alessandra Meldolesi
 

Lo spaghetto di contorno di Luigi Taglienti

Il piatto in foto immortala una delle pietanze più curiose di un formidabile pranzo registrato al Trussardi alla Scala, il miglior ristorante di “cucina ligure” (con molte virgolette, approfondiremo su altri schermi il perché) non solo di Milano ma forse includendo nel giudizio anche le insegne della stessa regione natia del suo cuoco, Luigi Taglienti, funestata da tante insegne stanche che offuscano il lavoro di eroi sempre più sparuti.

Si chiama Conserva e a memoria non ricordiamo una pietanza che separa nitidamente e concettualmente in modo così netto lo spaghetto dal pomodoro. È quel che rimane del ricordo vivo di un’estate nell’orto del giovane Taglienti: il pomodoro perino, prepotente allo sguardo e al naso (come arriva al tavolo, salgono evidenti piacevolissime zaffate di conserva di pomodoro fresco e di parmigiano appena grattugiato), cuoce in un pentolone a 50°C per tutta una notte («lo togliamo a mezzogiorno del giorno successivo»). Dopo tanto calore, mantiene bizzarramente la struttura originaria del perino.

E lo spaghetto? È cotto sereno in acqua corrente, leggermente unto con dell’olio ligure e spolverato con del parmigiano giovane. Ma scivola via come un contorno, quasi anche in terzo piano rispetto alla foglia di basilico, volutamente ossidata per ricordare quel gesto delle mamme che, prima di chiudere il barattolo della conserva, infilano a tradimento la foglia di basilico «perché non si sa mai».
 

Enrico Facco, Valdaosta croccante

Enrico Facco, 30 anni, padovano, un cursus honorum eclettico, caleidoscopico, capace di sintetizzare efficacemente in un solo menu spunti tradizionali, rielaborazioni d’anima borghese e una certa creatività, ingredienti con i quali ha costruito il successo gastronomico dell’Ad Gallias di Bard, Aosta. Le proposte di pasta seguono lo stesso canovaccio e sono un punto di forza: «Abbiamo da poco anche un torchio per preparare maccheroncini, caserecce, bigoli e orecchiette maison», spiega.

Le regole d’oro? «Amo soprattutto la pasta fresca ottenuta con tanti tuorli, non solo per questioni di sapore ma anche di testura. Mi piace quasi sentirla… croccante in bocca». Dunque tagliatelle (preferibilmente con sughi di carne e/o verdure) o tagliolini (foto) che, più fini, si abbinano soprattutto al pesce, «li facciamo saltare, rigorosamente in bianco ed espressi, con un po’ di olio profumato, per valorizzare il gusto puro di farina e uovo», prima di sposarli a vongole o scampi crudi o carpaccio di ricciola. Più elaborate le paste ripiene («La mia preferita? Tortelli zucca e castelmagno, con una grattata finale di tartufo. È una specie di inno alla padanità»), ma la ricetta certo più particolare è un classicissimo di queste parti, gli chnèfflenè.

Vengono dalla vicina Gressoney e sono bottoncini di farina, uova e latte, tipici della cultura walser, che proprio nell’area gressonaria ha l’unica propria enclave della Vallée (in altre zone di insediamento di questa antica comunità d’origine germanica assumono invece altri nomi, sono ad esempio paragonabili agli spätzle delle Alpi orientali italiane e austriache).

E’ un piatto consistente, «più saporito che elegante»: l’impasto profumato di noce moscata e pepe, condito con crotten di capra, avvolto nello speck, spolverato di erba cipollina e mantecato con burro di malga, «di quello buono che troviamo in zona quando le vacche che hanno appena finito di mangiare fiori ed erbe aromatiche». Al posto del crotten Facco ha provato anche il castelmagno, il pecorino di fossa, quello di Pienza o il parmigiano: buoni, «ma non è la stessa cosa», il piatto ha una sua tradizione e va rispettata.
Carlo Passera
 

Massimo Mentasti: conchiglioni e memoria

Siamo a Gavi nel Resort di Villa Sparina e nel menu autunnale del ristorante La Gallina scopriamo un piatto di pasta al ragù apparentemente banale, ma a scavare è un vero salto nella memoria per qualsiasi gourmet. La versione piemontese del celebre condimento emiliano si gustava in famiglia, la domenica preparandolo con un rito ancestrale che risale alle dimore delle famiglie sabaude. Il ragù di Massimo Mentasti è quasi destrutturato nell’aspetto, alleggerito nelle calorie e bilanciato perfettamente nei sapori nel piatto.

La pasta è corta e concava, ottime forme per armonizzare profumi e consistenze. Il piatto vede protagonista i Conchiglioni Monograno Felicetti e una versione riletta del ragù di Fassone, cotto a bassa temperatura. Con le carni, primeggiano carota, cipollotto e sedano che verranno cotti separatamente in padella e disposti nel piatto in maniera scientifica per consentire di gustare ogni boccone nella sua integrità.

La besciamella si compone esclusivamente di latte aromatizzato alla noce moscata e parmigiano. Cotta la pasta, Mentasti pone all’interno di ciascun conchiglione una quenelle di ragù spolverata di parmigiano e infornata per una gratinatura soft. Molto importante, sul fondo del piatto colerà un dripping di besciamella, salsa di sedano, salsa di pomodoro con lieve nota piccante e dadini croccanti di carota, cipollotto e sedano per chiudere il cerchio vegetale. Un tuffo nella memoria gustativa.
Cinzia Benzi
 

Fabio Sgrò, la grinta del Marcelin

Di che è pasta è fatto uno che a 22 anni disse al patron del ristorante in cui lavorava, e dove adesso è chef e socio, "magari fra qualche anno e mi compro il ristorante"? Fabio Sgrò, chef del Marcelin di Montà d'Alba (Cuneo), non è un gigante di statura ma in quanto a decisione non ha da invidiare nessuno.
Fabio ha fatto sua la massima di Bottura "il cibo non è solo carburante per il corpo", ma non prima di aver frequentato la scuola di due fenomenali nonne, soprattutto in cucina, che gli hanno insegnato la centralità della pasta nell'alimentazione.

Galeotte furono le nonne, ma galeotto fu anche il suo primo maestro, Massimo Camia, che lo ammaliò con la "bronziera" con cui trafilava la pasta di grano duro per il suo ristorante. Il maestro sperimentava con la pasta e l'allievo continua a farlo, anche in controtendenza con il classicismo piemontese che prevede paste ricche di uovo e ripieni molto gustosi. "Per un periodo ho avuto nel mio menu un cannellone di pasta di riso, ripieno di astice e spinaci servito con crema di patata, bottarga e uova di balik, piatto pensato anche per i celiaci".

Fabio Sgrò apparecchia i suoi tavoli perché comunichino il suo territorio. Quando divaga, in ogni caso il territorio emerge lo stesso. Come per la pasta, ottenuta a partire dalle farine di un mulino biologico di La Morra. Un piatto di pasta ci basta. Per la portata che ha reso Fabio "grande" per la prima volta e che su richiesta dei fan non si schioda dal menu ormai da tre anni, Fabio ha trafilato il senso comune e ha pensato di creare un piatto in cui mangiare pasta, formaggio, carne e frutta insieme. Dopo essere stato ricoperto di risate in cucina, si è preso sul serio e ha creato i Tortelli di pasta di kamut ripieni d’anatra, fondo di raschera e mirtilli. Una ricetta che mostra quanto equilibrio possa esserci sopra un momento di follia.
Martino Lapini
 

RICETTA/ I grandi Agnolotti di Lidia Alciati

Domenica 27 ottobre Identità Golose organizza all'Opera San Francesco di Milano un pranzo benefico sul tema Il Piemonte incontra a tavola l’Argentina in omaggio a Papa Francesco (100 euro donazione minima, prenotazioni al numero 02.49455885). Tra i piatti del menu - a firma di Cesare Battisti, Mauro Brun e Bruno Rebuffi, Davide Scabin, Emiliano Lopez, Gianluca Fusto e Andrea Besuschio – ci sarà uno dei più celebri primi piatti d’Italia: gli Agnolotti di Lidia Alciati. Li preparerà il figlio Ugo Alciati, chef di Guido, ora nella tenuta Fontanafredda di Serralunga d’Alba (Cuneo).

Gli agnolotti di Lidia

Ricetta per 6 persone

per il ripieno
1 carota
1 cipolla
150 g lonza di maiale
100 g salsiccia
200 g arrosto di sottopaletta di vitello
200 g scarola verde
100 g spinaci
4 uova
50 g grana
20 g burro
50 cl olio extravergine di oliva
sale e pepe

per la pasta
500 g farina
11 tuorli
10 g olio extravergine di oliva
3 g sale
80-100 g di acqua fredda
un po’ di semolino

Procedimento
per il ripieno
Soffriggere nell’olio la carota e la cipolla tagliate a tocchetti. Aggiungere la lonza di maiale facendola prima dorare a fiamma vivace e poi arrostendola a fuoco basso. Verso metà cottura aggiungere l’arrosto di sottopaletta, la scarola e gli spinaci. Coprire e cuocere per almeno 2 ore. Lasciar raffreddare. Nel frattempo far restringere il sugo di cottura, filtrarlo e tenerlo da parte in un padellino. Tritare le carni finemente. Unire al composto le uova e il grana grattugiato, aggiustando di sale e pepe.

per la pasta
Setacciare la farina sulla spianatoia, creare un incavo e mettevi all’interno i tuorli e l’acqua. Lavorare energicamente fino a ottenere un impasto liscio e omogeneo. Coprirlo con un panno umido e lasciarlo riposare per circa mezz’ora. Trascorso questo tempo staccarne un pezzo e passarlo nella macchina per fare la pasta iniziando dallo spessore più alto per arrivare a quello più basso e sottile.

Una volta pronta la striscia di pasta, stenderla sull’asse e cominciare a deporre dei mucchietti di ripieno su un lato della striscia, mettendoli a distanza di 2-3 cm l’uno dall’altro. Coprire con il lembo di pasta rimasto libero e farlo aderire bene.

Usando la rotella dentata, tagliare prima per il senso della lunghezza tutta la fila degli agnolotti ottenuti e poi separarli singolarmente. Saldare gli agnolotti uno per uno con un pizzicotto: il famoso “plin”. In attesa di cuocerli, sistemarli su un canovaccio leggermente spolverizzato di semolino.
Lessare gli agnolotti in acqua bollente salata per circa tre minuti e mezzo, scolarli e saltarli nel sugo di arrosto, tenuto da parte, con il burro.

Possono essere serviti in un tovagliolo o in un piatto con un tovagliolo, semplicemente fatti cuocere nel brodo di carne e scolati.