Newsletter 369 del 08.02.2012
 
 
Gentile
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  Marco Bolasco, ieri Gambero Rosso e oggi Slow Food, scrive nel suo blog che quella che si è conclusa ieri sera è stata “La migliore edizione di sempre di Identità Golose”, un’edizione l’ottava che “ha aperto il campo a riflessioni su ruoli, cuochi, lavoro e comunicazione. La tre giorni milanese, quest’anno (forse anche complice la crisi e la voglia di risalire la china) ha davvero superato ogni aspettativa”. E lo ringrazio non tanto per i complimenti in sé, chiaramente graditi, quanto per avere colto l’essenza del nostro lavoro e del nostro evento che, posto il ristorante al centro, un tempo più la cucina che l’impresa nella sua quasi totalità, spazia in ogni direzione.

Grazie anche al Milano food&wine Festival, cento cantine per 300 vini, un’altra tre giorni del gusto sotto lo stesso tetto ma per un pubblico diverso, anche di appassionati e non solo di professionisti, per quattro giorni, da sabato a martedì, in via Gattamelata si è celebrato il meglio della gastronomia, i cuochi con le loro idee, i rapporti con i fornitori e i risultati di un andare “oltre il mercato” forti di idee profonde e convinte, accanto ai grandi vini e ai grandi prodotti.

Quindi il dato che più mi ha impressionato: un pubblico di giovani, un pubblico allegro, attento e competente, pronto ad agire, a informarsi per capire come aggredire la crisi.
Paolo Marchi

Testi di Alessandra Meldolesi, Luciana Squadrilli, Cecilia Todeschini, Federico De Cesare Viola, Raffaele Foglia, Carlo Passera. Foto di Alessandro Castiglioni (Auditorium), Michele Bella (sala blu 1) e Alfredo Chiarappa (sala blu 2). Coordina Gabriele Zanatta

 
     
     
     
     
 
Dopo Pisapia, l’assessore Stefano Boeri
 
     
 
Il Comune di Milano ha assegnato il suo patrocinio al congresso di Identità Milano 2012. Non si è trattato di un gesto rituale, soprattutto perché confermato dal sostegno concreto che i suoi più importanti esponenti hanno dimostrato nei riguardi della rassegna. Se Franco D’Alfonso, assessore comunale al Commercio e al Turismo, ha presentato l’evento stesso nella sede del mercato coperto di Wagner il primo febbraio, il primo sindaco in persona, Giuliano Pisapia, non ha voluto mancare l’appuntamento di via Gattamelata nel giorno del suo lancio, domenica 5 febbraio. Ieri è stato invece il turno dell’assessore con delega alla Cultura, Moda e Design Stefano Boeri (nella foto è con Claudio Ceroni di Magenta Bureau, anima del congresso con Paolo Marchi). Tre attestati concreti di stima che sono un segnale incoraggiante, anche in chiave Expo 2015.
 
     
     
     
     
 
Paolo Donei: montagna incantata
 
     
 
Comincia con i muggiti delle mucche e con le foto di famiglia dai primi del Novecento il video che apre l’intervento di Paolo Donei , chef del Malga Panna (in foto, premiato da Paolo Marchi), primo rappresentante della grande cucina di montagna trentina a cui è dedicata la mattinata. È attraverso i volti e i nomi delle persone (soprattutto quelli famiglia, a partire dal bisnonno che mise su la malga agli inizi del Novecento) e attraverso i suoi piatti che lo chef, piutosto timido, preferisce raccontare la sua terra: un Trentino che oggi sembrerebbe star scomparendo, con hotel con centri benessere che prendono il posto di malghe e stalle, e che invece rivive e propro grazie a contadini, allevatori e produttori, spesso giovani, che tornano alla terra. E grazie ai cuochi come Donei , che per i suoi piati parte dalla tradizione di Moena, “capitale” della cucina dolomitica e ladina, e dai prodotti locali. Legni, fiori e gemme raccontano le stagioni dei boschi di montagna, le tecniche di cottura vengono dall’ingegno della sussistenza contadina. Il risotto affumicato ricorda la tipica zuppa d’orzo: il riso è tostato e poi affumicato con trucioli di faggio, che dà un aroma dolce e lieve a ricordare quella delle costine di maiale affumicate dela zuppa, qui sostituite da cubetti di pancia cotta a bassa temperatura e poi resa croccante in padella. L’olio ottenuto dalle gemme di pino mugo raccolte in primavera dà il colore e il profumo di bosco, rafforzati dall’aria di latte in cui sono state infuse a freddo le gemme, i germogli danno freschezza a un piatto “semplice” e goloso. L’agnello viene invece marinato e cotto sottovuoto a bassa temperatura con il raro e miele di erica e fiori (erica, calendula, viola, camomilla), poi passato in forno con carbone vegetale di ciliegio a ricreare la cottura nel fieno con la stufa a legna. Ma è l’ultima “ricetta” quella più preziosa: una patata del suo campo, da cuocere in acqua e sale, tagliare e mangiare intiepidita con un po’ di burro di malga, la sua interpretazione di “oltre il mercato”: riscoprire il valore delle cose semplici, dei prodotti della terra. Come anche l’olio extravergine, prodotto preziosisimo e sottovalutato, a cui l’anno prossimo Identità Golose dedicherà ampio spazio, come anticipano Paolo Marchi e Manfredi Barbera , quarta generazione di una grande famiglia dell’extravergine siciliano, artefice tra l’altro dell’eccellente “Lorenzo” usato in questo giorni dai cuochi al congresso.
LS
 
     
     
     
     
 
Alessandro Gilmozzi, fiabe d'altura
 
     
 
Alessandro vuole parlare di fauna e flora della catena del Lagorai, la sua casa: il gallo forcello, la lepre e il cervo, il loro ambiente e già la prima ricetta sprigiona un’atmosfera fiabesca di boschi e fate. Del cervo e la lepre Alessandro riproduce nel piatto il sottobosco di cui si nutrono d’autunno. L’uso della lingua del cervo si discosta dalla tradizione abituata ai salmì e gli spezzatini, viene salmistrata con i sapori del terreno licheni, foglie di betulla, bacche di ginepro… Ugualmente la lepre, profumata, ma cruda. Gilmozzi nei suoi piatti è pittore e dipinge le terre e i suoi colori con gli ingredienti riscoperti passeggiando fuori dal suo El Molin di Cavalese. Il sottobosco è ricreato con un tortino di muschio con pinoli e polvere di licheni e porcino, la terra è dipinta con nocciole tostate selvatiche in granella e cipolla tostata, le prime nevi sono radici di rapa e crema di caprino e panna di malga. Pinoli di pino Cembro, aghi di abete, germogli e olio balsamico completano l’habitat in cui sono adagiati cervo e lepre. Nel secondo piatto Alessandro va oltre, smette i panni del pittore e diventa zoologo pur di farci conoscere le sue montagne: il gallo forcello è nel piatto insieme agli alimenti di cui questo si nutre a oltre 1500 metri d’altezza dove si trovano soprattutto profumi. Fiori di erica, mirtilli, ginepri con cui viene marinato il petto poi ridotto in tartare, il resto del gallo è cotto in un braciere in cui bruciano la stessa flora d’alta quota. Nella composizione del piatto torna l’ambientazione: il terreno con streusel al ginepro, gli arbusti con fegatini in tempura e i fiori in gel concentrato e sulla sommità essiccati. La bellezza dei piatti, la poesia di Alessandro nel raccontarli insieme alla profonda conoscenza delle sue terre, gli animali, gli uomini e la storia spiegano da sole il premio che Giovanni Minetti di Casa E. Mirafiore consegna a Gilmozzi come Artigiano della Gola per l’impegno suo e della sua famiglia (la birra del fratello Stefano, la pizzeria in cui sperimentare lieviti e farine e il wine bar per ospitare le eccellenze enologiche della zona).
CT
 
     
     
     
     
 
Alfio Ghezzi, il salmerino e l’archeologia lacustre
 
     
 
Alfio Ghezzi - nato a Tione di Trento e da qualche anno tornato a casa, cioè alla Locanda Margon di Trento, ma nel mezzo ne ha fatta di strada, metaforica e non, tra le grandi cucine d’Italia – ci ricorda che il Trentino non è solo boschi e montagne(tra l’altro, anche le cucine sul palco hanno origine trentina, realizzate dalla Inoxpiù di Trento), ma anche acqua: quella gelida e incontaminata dei laghi alpini del bacino del Sarca che nascono da ghiacciai e che, negli ultimi 10.000 anni (secolo più, secolo meno), sono stati un’eccezionale “nicchia selezionatrice” che ha permesso la conservazione di diverse specie animali. Tra queste, il salmerino alpino (Salverinus Alpinus, da non confondere con il salmerino “comune” di orgine nordamericana, Salverinus Fontinalis). Vero e proprio “fossile vivente”, questo pesce che a causa delle basse temperature ha dimensioni limitate ma carni saporite oggi viene anche allevato in acquacoltura, sempre in acque di montagna sotto gli 11 gradi. E proprio dalla collaborazione con l’allevatore è venuta allo chef l’idea di lavorarlo “come un maiale” cioè senza buttare via niente, dalle uova al fegato. Anche perchè, come dice Ghezzi , il fatto di lavorare in un territorio “limitato” (dal punto di vista geoclimatico) come il Trentino è in realtà un ottimo stimolo per la creatività. Ben vengano tali limiti se i risultati sono eccezionali come nel caso del suo salmerino. I filetti vengono lavorati in modo simile al gravlax nordico (marinato con sale e zucchero per estrarre acqua e dare consistenza al pesce crudo), passati in orzo tostato e serviti con una crema di mele e coriandolo dalle esplosive note fresche ed erbacee. Il fegato viene trattato come fosse un fegato grasso d’oca – di cui ricorda incredibilmente la burrosità e la ricchezza - spurgato nel latte, marinato in sale, pepe, zucchero, buccia di limone e Vino Santo del basso Sarca, poi cotto sottovuoto e servito con una crema di carote e bacche di corniole ad esaltarne la dolcezza. Le uova sono servite sopra e dentro una “salsa olandese”, classico accompagnamento per i piatti di pesce. Accanto, dell’amaranto sbriciolato che ricorda la polenta e aggiunge una consistenza croccante al piatto. Ultimo ingrediente “extra-lacustre” ma sempre di territorio, un formaggio caprino dall’antica razza autoctona della Bionda Nana del Brenta, che ricorda la panna acida. Il tutto, servito in un piatto ad alto effetto scenico realizzato da un artigiano di Breganze, con una sorta di doppio fondo. Ghezzi infatti non dimentica l’insegnamento marchesiano (tra i molti) di “ricreare un equilbrio biologico tra il piatto e quello che contiene”. In questo caso, il salmerino galleggia su un fondo di sassi che ricordano il greto del fiume, circondato da un “mini-ghiacciaio” ottenuto con una soluzione sovrasatura di acqua e sale (acetato di sodio) che ricrea una “neve perenne”. Insomma, per una volta il contenitore è importante quasi quanto il contenuto, o meglio serve ad esaltarlo. Caso non poi così raro nell’alta cucina: spesso gli chef trovano validi alleati in chi crea e realizza piatti e bicchieri: tra questi Cristina e Alessandro Guidi, artefici dal 1994 di Caraiba e ormai membri della famiglia di Identità Golose con cui collaborano fin dalla prima edizione, premiati “a sorpresa” da Paolo Marchi e Claudio Ceroni per il loro lavoro e il loro importante contributo al progetto.
LS
 
     
     
     
     
 
Daniel Facen, trasformazioni al microscopio
 
     
 
“L’ultimo trentino è scappato di casa!”. Stefano Vegliani introduce così Daniel Facen trentino migrato a Chiuduno vicino a Bergamo per aprire il suo Anteprima. Daniel è un appassionato sperimentatore. Oggi però racconta le emozioni che sente oggi e di come le metta nei piatti legati alla sua terra d’origine. Innamorato della tecnica non per modificare, ma per portare idee e pensieri nei piatti è partito dalla cucina tradizionale e vuole spingersi oltre da curioso sperimentatore e acuto ricercatore. All’Anteprima la brigata si alterna tra fornelli e microscopi, pentole e provette, in bilico tra scienza e ristorazione. Dal Trentino prende l’ispirazione per i suoi piatti (profumi, boschi, artigianato di contadini e allevatori, grandi panorami…). Al grido lovoiseriano di “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” il cuoco –chimico insegue i suoi ricordi di ragazzo, il rumore del torrente, la neve che si scioglie, il profumo del latte appena munto e li mette nel piatto. Una sfera di latte, un’anguilla gratinata e la trota salmistrata in acqua profumata. Nella sfera si adagiano castagne, uova di trota disidratate, rabarbaro e ricreano il fiume e il suo greto, poi le verdure del bosco come funghi, carote, rapa bianca, barbabietola, asparago bianco e finocchio e infine i pesci. Altre suggestioni e ricordi quando gioca con il re dei boschi trentini, il cervo. La tecnica ne sconvolge gli equilibri, ma mai la sostanza: il contenitore è il brodo, la polenta è in cialda, la barbabietola è un pane, la parte vegetale una riduzione di piselli, il rosmarino viene “brinato”, l’olio è in polvere e la carne trionfa in una cottura tradizionale al rosa, unica nota “trasgressiva”. Gli ingredienti sono tutti del territorio, la tecnica è al totale servizio di ingredienti ottimi e poco trattati, sempre.
CT
 
     
     
     
     
 
Grana Padano, dop onnipresente nei piatti
 
     
 
L’edizione 2012 di Identità Milano è quella che ha segnato la definitiva affermazione di Grana Padano. Basta leggere le newsletter di oggi e dei giorni scorsi per capire quanto “la dop più venduta nel mondo” sia anche quella più usata dai cuochi di tutto il globo, da Roberta Sudbrack di Rio a Davide Oldani, dal catalano Sergio Humada a Carlo Cracco. Proprio il cuoco vicentino (in foto) ha deliziato gli ospiti nello spazio espositivo del Consorzio, affollato per il suo apprezzatissimo uovo allo zafferano. Stesso entusiasmo per i colleghi Fabrizio Ferrari, Rosanna Marziale, Antonella Ricci, Davide Oldani e Claudio Sadler. Che sono solo una parte, alla fine, dei 28 protagonisti che utilizzano Taglio Sartoriale per le loro creazioni (riassunte in bel libro appena edito da Mondadori). In tanta diffusione, è spiccato su tutti la Faraona non arrosto di Massimo Bottura dell’Osteria Francescana di Modena. È il piatto dell’anno, quello che ha condotto il presidente del Consorzio Nicola Baldrighi a premiare il tre stelle modenese prima del suo attesissimo intervento.
 
     
     
     
     
 
Da Aprea a Scabin, i cavalieri della pasta
 
     
 
“La giornata di oggi dev'essere uno stimolo per far sì che si parli sempre più di pasta, prodotto per troppo tempo è stato considerato banale. È determinante che la pasta torni ad essere quello che è, un mezzo con cui la cucina italiana può aspirare ai mercati di tutto il mondo”.
Così Riccardo Felicetti, vicepresidente di Aidepi - Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane - e produttore di Monograno Felicetti apre sul palco della Sala Blu la maratona di carboidrati che ha messo insieme 6 fuoriclasse della cucina italiana.
Il tema dell’intervento di Nino Di Costanzo del Il Mosaico del Terme Manzi Hotel di Ischia è la pasta e patate. Ieri e oggi: mentre in sala il pubblico si lecca i baffi con una versione-monumento della tradizione, lo chef campano compone a favore di telecamere una delle sue possibili variazioni, una tavolozza pollockiana creata con 25 formati di pasta cotti simultaneamente timer alla mano - dai 23 minuti del fusillone ai 5 dello spaghettino – e con quattro varietà di patate per cinque consistenze: centrifuga di patata viola, zuppa di patata rossa, chips di bianca e di gialla, spuma sifonata al latte di bufala con la patata gialla.
L’approccio alla pasta di Davide Scabin del Combal.zero di Rivoli è quello di un designer di fronte a un materiale: cercare sempre nuovo forme e nuovi usi. Perché “la pasta non deve essere banale”. Si comincia con il cipollone cotto al forno e ripieno di spaghetti e verdure, si prosegue con il rigatone - lesso, tostato in padella e farcito di carbonara - che accompagna un’insalata di mare, si chiude con una provocazione: Pasta Warriors per combattere sullo stesso terreno del fast food, nome da guerrilla marketing per due idee che ammiccano allo street food: fusillone wrap (una piadina ripiena di pasta) e spaghetto TWA, servito come in economy class su un volo intercontinentale: pasta in forma di pasticca e verdure disidratate in un bicchiere, il tutto ravvivato da un brodo di vitello made in Italy.
Dal pop multicolor di Scabin al bianco e nero viscontiano di Pino Cuttaia che rapisce la sala con un inno accorato all’importanza della memoria in cucina e della salvaguardia del grande artigianato italiano. Sceglie un piatto che racchiude come in una Madia tutti i gesti, gli strumenti e gli ingredienti della sua grammatica siculo-italiana: cannolo di melanzana in pasta croccante. Il cannolo è fatto con un disco di melanzana, è farcito con una crema di melanzana (fatta con ricotta vaccina e soffritto di cipolla) ed è “sigillato” con una melanzana perlina tagliata a metà. Tutt’intorno un nido di capellini croccanti (prima cotti con pistilli di zafferano e poi passati in forno), un sugo di pomodoro e una spolverata di Ragusano.
Il primo relatore della giornata, Andrea Aprea del Vun di Milano (in foto), aveva invece da subito posto un dubbio ontologico alla platea (“Pasta non pasta”, questo il titolo della sua lezione) e travolto ogni certezza, in un perfetto gioco di mimetismi, facendo travestire da verdura il popolare impasto tricolore (e viceversa) con due “piatti in maschera” come Linguine cotte all’estratto di cavolo rosso, burrata, aringa affumicata, pinoli e germogli di crescione e Cannellone di sfoglia di rapa, ricotta di bufala, catalogna, scampi e i loro consommé.
Francesco Sposito, conterraneo di Aprea ma rimasto in Campania, alla Taverna Estia di Brusciano (Na), ha traslato il proprio dato biografico (classe 1983, carriera in ascesa ma con solide basi che si chiamano Alain Passard e Igles Corelli), attualizzando piatti tradizionalissimi come la Pasta e fagioli, che si aricchisce di una salsina fatta solo con le valvole delle cozze femmine (dieci chili di cozze, 400 grammi di salsa!). Tocco aristocratico finale: quenelle di tartare di gamberi.
Gran chiusura con le creazioni dolci a base di pasta di farro di Alessandro Gilmozzi, in doppia trasferta: a Milano dal suo El Molin di Cavalese; e dalle amate erbe che raccoglie ogni giorno, all’arte del dessert. Pasta di farro, dunque: può trasformarsi in un fonde dolce-cremoso (la pasta cotta e candita con mielata di abete e poi passata al paco jet) che fa da base a un gelato di tagliatella di kamut al burro e cardamomo. Oppure può farsi macaron, sostituendosi in farina alla farina di mandorle. La farcia è di mele della Val di Non e crema di zucca.
FDCV e CP
 
     
     
     
     
 
Acqua Panna-S.Pellegrino: potere ai giovani
 
     
 
I giovani cuochi. Nessuno come Acqua Panna-S.Pellegrino scommette su un filone di contenuti che coincide con quello di Identità Golose, evidente per esempio nell’intera giornata Identità Vent’anni, format d’apertura del congresso 2012, molto seguito. Giovani sono i protagonisti che hanno contribuito al super-afflusso di curiosi allo spazio espositivo del dual brand, marcato dalle splendide illustrazioni di Gianluca Biscalchin (nella foto).
Sono ragazzi di talento di cui sentiamo parlare in anteprima proprio qui. Segnatevi i nomi, allora: il bresciano Andrea Mainardi, il trentino Claudio Pregl, Eugenio Roncoroni, Beniamino Nespor di Al Mercato a Milano. Chef che escono dritti dal filone de I Sognatori del Gusto, tre edizioni per scovare i migliori talenti in fiore del nord, centro e sud Italia. Un lavoro coronato con la premiazione di Paolo Caporossi, marketing manager del Gruppo Sanpellegrino, che ha consegnato sul palco dell’Auditorium il premio vent'anni al pasticcere Franco Aliberti, emozionatissimo di stare sull'olimpo dei migliori talenti italiani.
 
     
     
     
     
 
La brace di Parisi e Cogo: futuro presente
 
     
 
Il fuoco, la brace e mangiare con le mani. La giornata dedicata alla carne è stata inaugurata proprio nel segno del ritorno alle origini e del gusto pieno. Un passato che, però, è anche il futuro: ovvero la brace. Un concetto complesso, mostrato dalla “strana coppia” formata dal cow-boy della Toscana, Paolo Parisi, e dal giovane chef emergente Lorenzo Cogo, El Coq di Marano Vicentino. Rustico e moderno assieme, accomunati da un forno: quello concepito e realizzato proprio da Parisi per portare la brace anche nei ristoranti di alto livello. “Nella vita, spesso, si bruciano le tappe – ha raccontato Parisi – Io mi sono dedicato al fuoco, alla lentezza, alle cotture anche di 36 o 48 ore. E la gente si stupiva”. Da qui nasce la volontà di realizzare una macchina che potesse portare la brace nei ristoranti. “Io – incalza Cogo - ho sempre cercato la possibilità di usufruire della brace, anche perché questo sapore è sempre un passo avanti rispetto agli altri”. E non solo per la carne, come dimostrato dall’insalata alla brace, “dove le foglie scroccano, con la combinazione di una gelée all’aceto e una maionese all’abete. Si compone il tutto e si mangia con le mani”. Per questo utilizza il forno My Oven. “L’ideale – spiega Parisi - sarebbe farsi la brace dalla legna, ma è complesso. Il compromesso del carbone è il futuro: utilizziamo un carbone di mangrovia, che non trasferisce aromi. Il fumo è essenziale, però meno ce n’è, e meglio è. Il fumo maschera, copre, trasforma troppo: deve solo accarezzare la materia”. E la carne? “Il segreto della qualità – insiste Parisi - è il tempo, ma è costoso, per questo nessuno ne parla. La buona carne deve avere degli anni, delle fibre. Ma purtroppo la cultura della carne, in Italia, è poca. La carne di età non è dura! Credo nelle frollature per i sapori, ma non per le durezze. Se la carne è grassa non ci sono problemi”. L’esempio arriva da una pecora di 12 anni, cotta alla brace direttamente sul palco. “L’accompagnamento – spiega Cogo – c’è una salsa con 5 erbe fresche, che abbiamo mescolato con con uno yogurt di capra. La brace va bene sia per una ristorazione più spartana, sia per una cucina di ricerca. Io mi sono specializzato più sulla tecnica e la ricerca, con lavorazioni più fini. E con questo forno si riesce a portare la brace ad altissimi livelli”.
RF
 
     
     
     
     
 
Gian Pietro e Giorgio Damini, fratelli e coltelli
 
     
 
Coltelli corruschi e morbido rosseggiare, quasi un’alba gloriosa sul terzo giorno del congresso. Le atmosfere sanguigne, degne dei pennelli di Annibale Carracci, hanno scortato sul palco saperi antichi e gesti senza tempo. I cromatismi irresistibili di un fascio di fibre scarlatte marezzate di candore.
Non siamo fra i vicoli bolognesi della “Grande macelleria”, però, ma a Vicenza. Dove Gian Pietro e Giorgio Damini, fratelli cresciuti nel métiers de la bouche, uno macellaio, l’altro cuciniere, si sono messi insieme per nobilitare ogni grammo del loro selezionato bestiame.
L’approccio è olistico, visto che anche del manzo non si butta via niente. Il revival del quinto quarto e soprattutto degli anteriori conta anzi fra le massime sfide culinarie. Perché il macellaio non è solo colui che squarta, ma anche un consigliere. Snodo importante affinché la comunicazione della cultura gastronomica si innervi fin dentro i condomini.
L’animale, una scottona, è stato macellato ieri, senza frollatura. All’anagrafe una “Damini limousine” allevata in zona con mangimi autoprodotti e letame reimmesso nel terreno, per chiudere ermeticamente il ciclo. E perché proprio lei? La risposta sta nel sapere artigiano: “Ogni giorno in stalla scelgono l’animale più pronto: basta toccarlo sopra la coda, oppure sul petto come una volta”. Non meno variabile la frollatura: ogni taglio e ogni animale hanno tempi differenziati che solo l’esperienza riconosce, tanto da poterli inanellare in una saporosa verticale, ricalcata sui riti delle grandi etichette.
Quasi un’opera di performance art la disossatura in sala, con sciabolate auliche come un sabrage dello Champagne. Due le dimostrazioni in sala di cosa quotidianamente si perdono gli esangui aficionados di filetti e scamoni: la battuta cruda di fesotto di spalla con raperonzoli, bernese all’olio e pane croccante e l’insalatina di pancia con puntarelle e spalla. Tanto per smettere di farsi del male.
AM
 
     
     
     
     
 
Nava: in Sudafrica, tra gnu e more romagnole
 
     
 
“Non ho le stelle, ma le stalle. E forse è meglio”. Quella di Giorgio Nava (in foto con il presentatore Fabrizio Nonis) è la storia di un cuoco che è riuscito a proporre la sua vincente semplicità nel caos culinario di Cape Town. “Mi sono innamorato del Sudafrica, che ho visitato la prima volta nel 1987 per una vacanza. Qualche anno dopo mi sono trasferito per fare la mozzarella, ma non ha funzionato. Così ho visto che c’era spazio per la ristorazione, e ho aperto il primo locale: sono stati anni difficili all’inizio, anche perché io proponevo una cucina pulita, mentre la loro è piena di salse (più possono, più ne mettono). Dopo 5 anni ho avuto le prime soddisfazioni. E poi ho aperto Carne SA, dove propongo la carne – appunto – che arriva direttamente dal mio allevamento. In questo senso ho due farm: una per la selvaggina, l’altro per il manzo, in particolare la razza romagnola. Qui, per esempio, incrocio i tori romagnoli con vacche indigene, che si chiamano nguni”. I ristoranti, tra i quali 95 Keroom e Carne, si trovano a Cape Town, mentre la farm è a Karoo, a 700 chilometri di distanza. “Ho trovato questo posto meraviglioso, incontaminato, e ho pensato che si potesse fare qualcosa di interessante. Così è nata l’idea dell’allevamento. Gli animali, quando sono pronti, vengono portati a dei macelli molto piccoli”. Massimo controllo e garanzia di qualità, anche su questo aspetto. Selvaggina e manzi: ci sono 15 mila agnelli, mille kudo, e ancora gazzelle, antilopi e gnu, giusto per fare degli esempi. E la carne di gnu, cucinata da Paolo Parisi con il forno a brace, è stata la protagonista degli assaggi: “E’ una carne rossa, molto delicata, che non sa di selvaggina, bensì che profuma di erba. Sono tagli unici, che non si possono trovare altrove”. E poi anche la fiorentina di manzo di 24 mesi ricavata da un manzo incrociato, con tori di razza romagnola e mucche di razza nguni. “Perché le due farm? In Sudafrica si utilizzano i centri di ingrasso, i feedlot, senza contare, poi, che per la carne si tollera anche l’utilizzo degli ormoni. Questo non mi andava bene. E poi un po’ tutti i cuochi hanno il sogno di poter cucinare la carne che allevano loro stessi”.
RF
 
     
     
     
     
 
Birra Moretti: da Grand Cru alle stelle di Milano
 
     
 
Come ti giri ti giri, tra gli spazi espositivi, sui tavoli degli addetti ai lavori, in sala stampa, a destra e sinistra, era tutto un fiorire di calici di Birra Moretti: Rossa, Grand Cru... Parliamo di calici, mi raccomando, e non di boccali perché la cultura della bevanda ne ha fatta di strada in Italia. E non solo nel bicchiere, ma soprattutto nel piatto perché Birra Moretti acquista grande senso in abbinamento agli altri ingredienti assemblati dai protagonisti della grande cucina italiana. CHiave di volta che poi è il senso del Premio Birra Moretti Grand Cru, concorso che nel 2011, prima edizione, ha coinvolto oltre 130 chef e sous chef sotto i 35 anni. Tre di loro hanno cucinato autentiche prelibatezze nello spazio espositivo: il vincitore del Premio stesso Giovanni Baldessari, secondo di Alajmo alle Calandre; Giovanni Sorrentino, già executive chef di Terra di Vento a Montecorvino Pugliano (Sa) e Andrea Cuomo, chef del Settecento di Bergamo. Il quadro di assi ha chiuso la sua cornice con Claudio Sadler, premiati da Alfredo Pratolongo, direttore Comunicazione e Affari istituzionali di Heineken Italia, per il grande lavoro che da anni il cuoco trentino conduce sulla birra in cucina. Tutti elementi che mettono in rampa di lancio la seconda edizione del Premio Birra Moretti Grand Cru, pronta a partire. Ne parleremo presto.
 
     
     
     
     
 
Jean-François Dargein: alle origini del cacao
 
     
 
Siamo abituati a pensare al cioccolato sotto forma di tavolette e napolitaines, come se nascesse così in natura, e invece dovremmo abituarci a ri-pensarlo in forma di fave e cabosse, diretta emanazione del frutto da cui nasce, proprio come il vino – che sia da tavola o una grande bottiglia d’annata – è immediatamente riconducibile all’uva. È questa la missione, di Jean-François Dargein, agronomo ed enologo, che da 20 anni collabora con l’Ècole du Grand Chocolat de Valrhona per valorizzare e far conoscere la cultura del cioccolato come prodotto agricolo, espressione di specifici terroir e con una grande diversità che cuochi e pasticceri possono esaltare con le proprie creazioni. Seguendo l’analogia con il mondo viti-vinicolo, Dargein propone un viaggio alla scoperta delle origini del cioccolato, quasi un giro attorno al mondo. Il cacao – che nasce in Amazzonia, ma da li si è diffuso seguendo le rotte migratorie - cresce infatti soprattutto nelle fasce tropicali di Asia, Africa e America. Zone diversissime tra loro per conformazioni geografiche, climi, tradizioni. Per esempio, in Venezuela c’è un vero e proprio sistema di appellations che distingue zone di provenienza e qualità del cacao, ognuno con una propria identità. Tra gli elementi da tenere in considerazione, proprio come nel vino, ci sono varietà (l’equivalente dei vitigni, nel cacao sono le tre grandi famiglie Criollo, Forastero e Trinitario), terroir (composizione del terreno, clima, esposizione) e metodi di lavorazione (che riguardano soprattutto le fasi di fermentazione e essiccazione, in cui si sviluppano aromi e eventuali difetti), spesso legati alle tradizioni locali e all’imprescindibile elemento umano. Tutto ciò per Valrhona si traduce in un lavoro fondamentale sui blend o assemblaggi, i Marriages de Grands Crus costruiti partendo da zona d’origine, varietà locali e profilo sensoriale desiderato, come in profumeria. Ma ci sono anche altri approcci possibili: per esempio partire dal terroir e cercare di esprimerne al meglio le caratteristiche, come avviene nei Grand Crus des Terroirs . Infine, gli Chocolates de Domaines, ottenuti da una singola piantagione, dando un risultato unico, come avviene nel vino per gli Châteaux.
LS
 
     
     
     
     
 
Frédéric Bau, viaggio alla ricerca del gusto
 
     
 
Quello di Frédéric Bau è un viaggio nel tempo, una sorta di autobiografia del gusto nella pasticceria e nel cioccolato. E lo fa usando varie parole chiave: gusto, passione, cultura, assaggiare, capire, osare. “Il mio – ha spiegato il direttore dell’École du Grand Chocolat Valrhona – è un diario di viaggio, molto intimo, che vorrei condividere con voi per far capire quale sia l’importanza della cultura del gusto nel nostro mestiere di pasticceri”. Perché secondo Bau, manca cultura. “Sono 25 anni che sono a Valrhona e ho sempre lavorato in grandi maison, molto dinamiche. E sono ancora stupito e amareggiato nel sentire gli artigiani lamentarsi sulle differenze di gusto del cioccolato Valrhona da un anno con l’altro. Ma questo non è un errore, ma è la natura che si manifesta. Come avviene nel vino”. Questa conoscenza non arriva dal nulla, come spiega con ricchezza di particolari Bau: “Trent’anni fa ho deciso di diventare pasticcere, per passione. Ma nel 1979, come apprendista, mi hanno vietato di assaggiare. E questo mi ha ferito. Il mio era un desiderio di capire, di scoprire questa leggenda del gusto. Perché il gusto è la nostra ragione di esistere, ma è anche una parola che è ancora troppo assente nel nostro mestiere. Al lavoro, mi dicevano “Questo si fa così, perché lo dice la ricetta”. E allora me ne sono andato”. Poi è arrivato l’incontro fondamentale con Claude Bourguignon, che è l’inizio di una crescita incredibile. “Lui ci sgridava perché non gustavamo. Avevo l’impressione di essere un analfabeta, mi sembrava di essere in ritardo. Qui ho scoperto che ci sono i cioccolati, e non il cioccolato. E anche i difetti, come il bruciato o il sentore di muffa. Avevo l’impressione che parlasse un’altra lingua”. Scoprire, imparare, farsi una cultura del gusto: Bau era un “affamato” di conoscenza. E la sua ricerca è continuata da Pierre Hermé. “Lui mi ha portato alla conclusione che ero fatto per questo mondo. Qui è cresciuta la passione per il cioccolato: grazie a lui abbiamo iniziato a immaginare assieme. E ci spingeva a degustare: avevamo il diritto e il dovere di scoprire”. Secondo Bau, ognuno ha la propria percezione del gusto, che bisogna sviluppare. Dalla conoscenza si deve andare fino alla condivisione della propria passione. E incalza: “L’essere alla moda mi fa paura. Non siamo qui per rispondere a un desiderio del cliente, ma per crearlo. Seguire le mode è una scelta poco duratura e impersonale, una strada che prende solo chi non ha idee. La tecnica? E’ solo un kit, una scatola degli attrezzi per dare forma alle nostre idee”. Poi introduce un concetto: “Bisogna arrivare alla golosità ragionata. Sembra un ossimoro, ma si deve cercare di cancellare gli eccessi senza perdere la nostra essenza golosa”. E infine lancia un invito a tutti i pasticceri, con l’ultima parola chiave: “Osare. E’ un verbo che mi piace tantissimo. Dobbiamo osare sorprenderci, superare noi stessi, per poi sorprendere a nostra volta il cliente, che ha voglia di sognare. Siamo i custodi del gusto: dobbiamo essere felici e rendere felici”.
RF
 
     
     
     
     
 
Luca Lacalamita, niente posto fisso
 
     
 
La prossima volta che un politico si lamenterà della pigrizia e della voglia di monotonia dei giovani italiani, gli presenteremo Luca Lacalamita. A 26 anni, questo ragazzo di Trani ha messo insieme un curriculum impressionante e diverse centinaia di chilometri a unire tutte le cucine dove è stato dopo gli studi alberghieri. Prima a Londra, dove in poco tempo passa da un piccolo ristorante italiano alla pasticceria del Dorchester e poi da Gordon Ramsay, poi a Milano dall’allora Cracco-Peck . Una “stagione fantastica” a El Bulli e un “anno cerebrale” con Massimo Bottura sono esperienze che gli cambiano la vita, ma non lo fermano. Torna in Spagna, nei Paesi Baschi: Akelarre, altra esperienza fondamentale. Poi la voglia d’Italia e di nuovi stimoli: da circa un anno è all’Enoteca Pinchiorri, uno dei pochi ristoranti ad aver ampliato gli spazi della pasticceria: premessa fondamentale per un processo creativo condiviso e sempre in evoluzione e per mettere a punto la sua idea di pasticceria. Eleganza, sapori netti (mai più di quattro ingredienti, riproposti in forme e consistenze diverse) e anche un po’ di gioco. Parte dalle merende d’infanzia mediterranee il dessert Pane-Cioccolato-Olio-Sale: l’elemento principale è una “scaglia” di cioccolato (ganache all’olio ricoperta di cioccolato fondente) accompagnata da crema d’extravergine, “mollica” e “crosta” di pane croccante all’olio, biscotto al cacao sbriciolato per dare croccantezza e una salsa al cioccolato morbida che raccoglie tutti gli elementi del piatto (cioccolato, sale e extravergine) montata come una maionese. A tavola, chi serve aggiunge un filo d’olio a dare profumo. Ancora sapori mediterranei, questa volta dalla Calabria, nel secondo dessert: Bergamotto/Vaniglia/Miele. Un gioco di profumi intensi – secondo l’esempio dell’”aromaterapia” di Jordi Roca - in cui acidità e freschezza dell’agrume sono smussate dalla dolcezza del miele e dalla morbidezza della vaniglia (sotto forma di crema, gelatina e caramello croccante). Il bergamotto viene utilizzato in modo integrale: dalla scorza candita al succo, protagonista di una meringa fondente e di una granita dalla consistenza “nevosa”, per Luca il modo migliore per esprimere il gusto della frutta.
LS
 
     
     
     
     
 
Heinz Beck e tutte le espressioni del cioccolato
 
     
 
Declinare il cioccolato in tutte le sue espressioni, riuscendo a portare in tavola un dolce che appaghi ma che non sia stucchevole. Questa l'idea di Heinz Beck, storico chef della celebre Pergola di Roma, che sul palco di Identità Milano, concludendo il Dossier Dessert, ha voluto presentare un dolce in anteprima assoluta, che entrerà solo prossimamente nel menu. "Venire su questo palco deve essere uno stimolo: non voglio mostrare cose che faccio da tanto tempo, ma piatti che intendo preparare in futuro". Idee in movimento, quelle di Beck, che ha presentato un dolce che, al momento, ha un nome molto chiaro: Il Cioccolato.
"Attualmente si chiama così, anche perché utilizzo fava di cacao, cacao, cioccolato Guanaja Valrhona". Ma siamo aperti a tutte le alternative. Beck, sul palco, è stato affiancato dal suo chef pasticcere, Giuseppe Amato, siciliano: "Da noi, in pasticceria, sono in cinque. Tutti possono dire la propria, offrire il proprio contributo con le idee. Vorrei aiutarli a crescere, in un continuo scambio". Il piatto presentato è un'unione di 4 sapori e 4 texture diverse, con il cioccolato interpretato in forma e gusto. "Prima ho creato un cremoso senza bolle, che poi versiamo sul cioccolato. Quindi ho realizzato una sablè al cioccolato. Poi ho preparato una schiuma di latte con l'aggiunta di grue di cacao: in sostanza diventa come la schiuma del cappuccino, che poi mettiamo in abbattitore per renderlo rapidamente duro. Infine abbiamo preparato una chip di riso, realizzata con riso bollito 24 minuti, la sua acqua di cottura e cacao. Quattro elementi, che si uniscono in questo nuovo piatto". Difficoltà alla Pergola? "Fino all'anno scorso siamo andati anche bene. Naturalmente c'è la crisi, non si può negare. Adesso i clienti magari pensano due volte in più, prima di spendere. Noi dobbiamo cercare di essere ancora più bravi, rinnovarci, per essere pronti quando la crisi finisce. Quando sarà superata, uno è pronto per andare alla grande. Un'altra cosa: i clienti si accorgono se un ristoratore risparmia troppo. Tagliamo i costi inutili, ma non nel piatto". Un po' di saggezza, a chiudere la giornata in auditorium.
RF
 
     
     
     
     
 
Lavazza, ressa per gli espresso dei cuochi
 
     
 
Non è possibile dire quale tra tutti gli spazi espositivi sia stato il più frequentato nella tre giorni di Identità Milano. Se però dovessimo riferirci a determinate pause orarie, non c’è dubbio che il corner Lavazza sia stato quello più battuto al mattino presto e nel dopopranzo. Tanto che spesso è dovuto intervenire il servizio d’ordine per placare la ressa. Si accalcavano per iniziare la giornata sorseggiando i ricettati a base dell’eccellente espresso italiano messi a punto in tanti anni di collaborazione con i grandi cuochi italiani e internazionali. Che, non a caso, si trovavano spesso coinvolti nella ressa per accaparrarsi non solo l’espresso ma anche il Cremespresso, una dolce evoluzione del concetto di caffè.
 
     
     
     
     
 
Casa E. Mirafiore, del Barolo e altre storie
 
     
 
Barolo Paiagallo 2008. È stato l’eroe rosso nello spazio degustativo di Casa E. di Mirafiore, storica maison vinicola di Serralunga d'Alba, potenziata da Oscar Farinetti, lo stesso patron e artefice del successo di Eataly nel mondo. Gli avventori hanno apprezzato soprattutto due caratteristiche nel grande vino piemontese di base nebbiolo: l'eleganza e la personalità. Ma a giudicare dal numero di bicchieri lasciati vuoti, la bevibilità ha avuto la meglio su tutto, fattore non scontato per un barolo. Importante: il Paiagallo uscirà non prima di aprile, dunque occorre un po’ di pazienza. Sono invece tutte sul mercato le altre etichette apprezzate nello stand: dalla classicità, ancora del barolo, dei vini Borgogno, agli eleganti bianchi friulani de Le Vigne di Zamò, fino a un’originale interprete del cabernet nel Nord-Est d’Italia: Serafini & Vidotto. Il tutto faceva il paio con le chicche gastronomiche dell’Antica Ardegna, produttore artigianale di nicchia di Culatello e di altre ghiottonerie della Bassa Parmense.
 
     
     
     
     
 
Guida in pdf, per iPod e Ipad. Dal 20 febbraio
 
     
 
I cavalieri sparsi negli spazi espositivi di via Gattamelata recitavano un messaggio che vale la pena rammentare in questa sede: il 20 febbraio esce il PDF sfogliabile della Guida ai ristoranti d’Italia, Europa e Mondo del 2012, quinta edizione. Si potrà acquistare direttamente nella sezione Negozio del sito di Identità Golose. Col PDF sfogliabile, saranno in vendita anche le application della Guida per iPhone e iPad: il vademecum di IG si potrà acquistare “in blocco” a 14,99 euro, oppure a sezioni, spendendo una cifra di molto inferiore per ottenere le schede di larghe parti del nord, del centro, del sud Italia, dell'Europa e del Mondo. Con ipertesti linkabili.
 
     
     
     
     
 
Dom Perignon: benvenuto 2003
 
     
 
Una sfida vinta. E presentata a Milano, in quella “è un po’ la seconda casa di Dom Perignon, maison francese che non ha bisogno di introduzioni. il vigrolettato di cui sopra è da attribuire a Richard Geoffroy, chef de cave del brand, che per la prima volta sceglie Identità Milano per una delle sue rare presentazioni. L'anteprima di quest'anno è su un millesimo preciso, 2003. "Otto anni per ottenere un prodotto molto importante e assolutamente unico nella storia di Dom Perignon, anche perché è stata un'enorme sfida. Il 2003 infatti è stato caratterizzato dal caldo torrido, soprattutto nella zona attorno alla regione dello Champagne”. Ma il risultato è stato davvero speciale. “La difficoltà si è trasformata in realtà in uno stimolo: così siamo cresciuti. Lavoro alla Dom Perignon da 22 anni, e la mia esperienza si divide in due fasi: prima e dopo il 2003”. Un grande prodotto.
 
     
     
     
     
 
Björn Frantzén, carnivoro boreale
 
     
 
Alla testa di uno dei ristoranti più ambiziosi della scena nordica, lo svedese Björn Frantzén , già allievo del maestro del fuoco Alain Passard, ha rispolverato il suo dna di cuoco onnivoro sul palco del congresso. Posando gli occhi su una delle icone nazionali: la renna della Lapponia. Regina romantica di paesaggi che immaginiamo sterminati. Fra i fiordi, l’animale di una civiltà, autoctono, semi-selvatico, sfruttabile fino all’ultima cellula. Perché anche il rispetto è etica, oltre che sostenibilità.
Il verbo della casa radicalizza la New nordic cuisine targata Noma, visto che il 70% del tempo di lavoro è consacrato al dialogo con produttori e raccoglitori, se non all’autoproduzione in due orti con polli e maiali. Procacciando in una caccia ulteriore anche la renna di 8 mesi, cresciuta a 6 ore da Stoccolma e presentata già sezionata in cuore, fegato e sangue coagulato. Ma c’è stato spazio anche per un uccello particolarmente pregiato: il gallo cedrone comprensivo del suo stomaco, ricettacolo di cibo e ispirazioni.
Qualunque sia l’ingrediente prescelto, tutte le operazioni di cucina, dal taglio alla cottura, fino alla zangolatura del burro, si svolgono à la minute. La fiamma ossidrica, per esempio, attraversa lo schermo di un carbone giapponese prima di attingere la carne della renna, coniugando delicatezza e affumicatura. Una scena che al ristorante si svolge sotto gli occhi del cliente. Ne è uscita una tartare con panna acida all’anguilla affumicata e caviale; e poi la guarnizione di cuore e fegato appena scottati per un pancake di sangue e patata con bacche di bosco e una spolverata di burro disidratato.
Venendo al volatile selvatico, la disamina del contenuto dello stomaco ha offerto l’istantanea del suo possibile food pairing. Una volta spennellato il piatto con il succo caramellato di una bacca molto amara, miscelato a grasso di foie gras, il petto è stato servito appena grigliato sotto forma di tataki insieme a carote cotte nel proprio succo, crescione, liquirizia e scaglie di mandorla germogliate nell’acqua. Configurando una cucina nordica di impianto originale, più colta e consapevole, ficcante nella ricerca gustativa senza rinunciare al nerbo vichingo dell’autenticità e del rigore.
AM
 
     
     
     
     
 
Zivieri e Corelli preferiscono la Mora
 
     
 
“Chi si occupa di carne, chi la produce o la cucina poi si riconosce in una sorta di confraternita” proclama Nonis quando si tratta di presentare Aldo Zivieri e ricordare il fratello scomparso Massimo. Il nome Zivieri è sinonimo di suini e bovini da generazioni, la conoscenza di questi animali va oltre le mura della macelleria. La storia delle razze autoctone non è un esercizio di stile o una nostalgia del passato, nasce da passione e professionalità per proporre carni di qualità sempre migliore a chef sempre più esigenti e conoscitori delle materie prime. Aldo dichiara che il suo lavoro è al sevizio di cuochi capaci di mettere nel piatto i suoi gioielli e far capire al cliente la differenza. Perché c’è carne e carne e le abitudini alimentari italiane sono ancora legate a regionalismi e pigri tradizionalismi. Nelle mani di Igles Corelli ogni ingrediente brilla di luce propria, non da meno l’effetto che ottiene lavorando al coltello il capocollo di mora romagnola di Aldo. Inusuale una tartare di maiale, ma come abbiamo fatto a privarcene fino ad ora? La carne è di una delicatezza e gusto incredibili, è perfetta anche solo con crostini di pane d’Altamura, fiori e germogli. Il macellaio spiega che il merito è della Mora che risulta perfetta per il fresco, più della Cinta che è più grassa, migliore per insaccati e salumi. Le due razze sono state salvate, perché fino a 10 anni fa gli esemplari di Mora non permettevano nessuna tartare, un marketing migliore ha invece riportato in vita la Cinta, ma non più di trent’anni or sono. Una rivoluzione silenziosa che è poi una ripresa dal passato: il cuoco, il macellaio-allevatore parlano la stessa lingua, si conoscono e conoscono gli animali e i loro gusti: li lasciano liberi per l’Appennino per almeno due anni a nutrirsi di ghiande, castagne, tuberi di cui vanno ghiotti. La nostra goduria nel piatto non sarà da meno.
CT
 
     
     
     
     
 
Sergio Motta e Daniel Canzian: falla frollare
 
     
 
Focus sul capitolo frollature per l’ultimo intervento di Identità di Carne, incisivo come il coltello del macellaio Sergio Motta . Complice una carcassa di bue intero degna della formaldeide di Damien Hirst, condotta alla soglia estrema della sua capacità espressiva. Di razza piemontese e nutrita a fieno e farina gialla, è stata macellata quando la coda si è mostrata coperta del giusto strato di grasso e frollata per 5 lunghi mesi, girando il celebre triangolo di Lévi-Strauss sul lato stimolante del putrido. Per finire sotto i riflettori trionfali del congresso e la percussione dei flash dei gourmet.
La premessa sta in un esperimento ardito, nato dallo spaiamento fra la vendita di anteriori e posteriori in bottega: il prolungamento dello stoccaggio da 3 settimane a 4 mesi alla temperatura di 0 gradi. L’analisi della muffa penicillium, compiuta da ricercatori universitari, ha svelato parametri invariati. Tanto da spronare Sergio a sfidare la soglia massima dei nove mesi. Ottenendo una carne che si è sciolta nella bocca degli happy few convenuti a Inzago Lombardo. Mentre il calo è corrisposto a pura disidratazione: uno strumento di concentrazione naturale, alternativo agli armamentari high-tech.
Daniel Canzian, discepolo di Gualtiero Marchesi, ha offerto la sua spalla di cuoco all’eccellenza della produzione artigianale. Omaggiando la tessitura tenera e il gusto maturo della carne con svariati passi indietro sotto il segno di una magistrale “anticucina”. A cominciare dalla tartara servita con tre salse (maionese alla senape, salsa verde piemontese e sugo di pomodoro piccante), per non inquinare una materia prima dalla complessità pari ai grandi salumi evoluti. Per proseguire con Carne e pesce, ovvero filetti di manzo e branzino non conditi, tagliati spessi per valorizzare le testure. Fino alla rilettura del gulash di filettone con cipollotto anziché cipolla e salsa separata al vino rosso e fondo bruno, che si è giovata fin dei ritagli di quella monumentale montagna di quintali.
AM
 
     
     
     
     
 
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La squadra di fotografi e giornalisti delle newsletter di Identità Golose 2012: se sapete tutto di ogni lezione, il merito è loro. In senso orario da ore 6, Alessandra Meldolesi, Federico De Cesare Viola, Luciana Squadrilli, Fabrice Gallina, Cecilia Todeschini, Alessandro Castiglioni, Raffaele Foglia, Carlo Passera e Gabriele Zanatta. Mancano Alfredo Chiarappa e Michele Bella, fotografi di Sala Blu 1 e 2. Ci vediamo nel 2013.