Newsletter 367 del 06.02.2012
 
 
Gentile
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  Che rabbia, neve e ghiaccio tengono lontane da Milano e da Identità 2012 alcune persone tra coloro che si erano prenotati dal Centro Italia, penso ad esempio a Marzia Buzzanca rimasta bloccata nella sua L’Aquila e ai fratelli Parini, Luca e Pier Giorgio, sepolti a Torriana alle spalle di Rimini. E’ così purtroppo saltata la loro lezione a Identità naturali, ci sarà un’altra occasione.

Siamo a metà percorso, al giro di boa si diceva un tempo nei campionati sportivi al termine del girone di andata. Ieri seconda giornata del Milano food&wine Festival, oggi la terza e conclusiva, cento cantine per trecento vini in degustazione, più i grandi piatti di Chicco e Bobo Cerea, Emanuele Scarello, Gian Pietro e Giorgio Damini, Cristina Bowerman. Identità vivrà invece un lunedì dedicato la mercato, alla pizza e alle donne chef, domani sarà la volta di Trentino, Dossier Dessert, pasta e carne.

Cinquantuno i volti nuovi: una cinquantina i relatori al debutto più il sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Mai il primo cittadino della città del Duomo aveva assistito al congresso, mai la Moratti in pratica, né al Palazzo della Borsa né in via Gattamelata. Pisapia ha fatto capolino verso l’una e mezzo e ha raggiunto la postazione dove Massimo Bottura preparava la Pasta e fagioli assieme con Marta Pulini. Poi un assaggio dei dessert dei fratelli Cerea, quindi una visita agli stand. Per la ristorazione di qualità è un buon segno a tre anni dall’Expo.
Paolo Marchi

Testi di Alessandra Meldolesi, Luciana Squadrilli, Cecilia Todeschini, Federico De Cesare Viola, Raffaele Foglia, Carlo Passera. Foto di Alessandro Castiglioni (Auditorium), Michele Bella (sala blu 1) e Alfredo Chiarappa (sala blu 2). Coordinamento Gabriele Zanatta

 
     
     
     
     
 
Latte o non-latte? Assenza e Alajmo
 
     
 
«Io sto lavorando sul latte». «E io sulla sensazione lattica!». Le idee nascono dal confronto, dalla ricerca, ma anche un po’ dal caso. Prendiamo la lezione di Massimiliano Alajmo e Corrado Assenza, che ha inaugurato la tre giorni di Identità Milano in Sala Auditorium. Chi dei due è lo chef e chi il pastry chef? Chi il cuoco e chi il pasticciere? I ruoli sembrano confondersi, se entrambi si sono ritrovati a lavorare sulla stessa materia/sensazione, partendo certo dai rispettivi punti di vista: ecco tesi, antitesi e finalmente la sintesi, «figlia della nostra amicizia», chiosa il genio di Noto, che sottolinea la versatilità dell’intelligenza («Nel mio percorso sono fiero di tenere insieme umanesimo e scientificità») prima di raccontare il proprio piatto, un dolce sia chiaro, il Cuturro di grano. Cuturro? In Sicilia si chiamano così le preparazioni a base di grano spezzato (in questo caso una cultivar antica, il Rossello, poco produttiva ma con rese qualitative straordinarie), lasciato a bagno in acqua, cotto a vapore e poi mantecato con il latte. E’ lo strato iniziale di un dessert che si arricchisce di aromi straordinari: mandorla di Noto, pistacchio di Bronte, miele d’arancio. Alajmo (antitesi) ribalta i concetti e gioca sulla pura sensazione lattica, imprinting gustativo primordiale (il seno materno), quindi dalla potenza evocativa straordinaria: il tutto, però, in rigorosa assenza di latte e derivati, altrimenti sarebbe troppo semplice... Si pensi a un piatto come Pier-Angelini, nome-gioco e omaggio al grande Fulvio: si basa sul latte di ceci ottenuto frullando il legume lasciato a bagno, cotto e poi passato al microonde. Su questa crema si poggiano gamberi rossi, capperi dissalati e purea di ceci classica, arrotolata nel mais croccante soffiato. Sorprende il latte di ceci? Quello di sogliola deriva dal pesce spolpato e, al minipimer, usato da collagene per unirsi con mandorle e senape. Condisce un risotto mantecato ovviamente senza burro sfruttando alghe dolci e aromatizzato con un succo di cozze e vongole. Per completare il piatto, la polpa della sogliola passata in padella, erba cipollina, olio e caviale. Suggestioni finali: il formaggio di merluzzo (!), ossia trippe del pesce frullate con acqua e olio, poi sifonate e fatte solidificare (che bello accompagnarlo, come appetizer, con pane nero di seppia…); o le cagliate vegetali (ricotta di mandorle, di pistacchio, di sesamo tostato e un cacio di nocciole), ottenute aggiungendo acqua e cloruro di magnesio alla materia prima base, per avere una sorta di caglio. Infine il “banale” burro d’olio, che nasce dall’unione dell’extravergine con il burro di cacao, l’acqua e la lecitina: è l’idea per una pasta sfoglia caramellata o una crema pasticciera montata, ovviamente, all’olio. La sintesi della lezione l’aveva anticipata Roberto Restelli, il già curatore della guida Michelin che firmò le tre stelle alle Calandre: «Il cibo può migliorare il mondo».
CP
 
     
     
     
     
 
Aimo Moroni, un faro a Milano
 
     
 
“Un faro”: così Paolo Marchi ha introdotto sul palco Aimo Moroni, storico signore della ristorazione milanese. Che ha rivendicato quale cifra della casa “una conoscenza profonda della qualità, che deve raccontare innanzitutto se stessa, emozionando”. Libertà e contemporaneità, quindi, espresse in un italiano così impeccabile da configurare una crusca culinaria con i suoi rigidi paletti identitari. In omaggio non una medaglia, che resterebbe sepolta nel palmarès già stipato, ma una girandola di remake d’autore, a testimonianza di una vitalità che continua a tenere svegli i nostri cuochi.
Per primo Massimiliano Alajmo ha elaborato spaghettini di mozzarella conditi con cipollotto cotto sottovuoto a 102 °C per 1 ora (al fine di ottenere al tempo stesso l’acqua di cottura della pasta e le due puree, grigliate ed emulsionate), più una salsa di datterini frullati interi per sfruttare la pectina del seme e valorizzare la rusticità della testura. Un mix di acribia tecnica e volo pindarico che conta pochi eguali: Sine scientia ars nihil est, recitavano gli antichi.
Mentre Corrado Assenza ha voluto recuperare l’origine siciliane dei Moroni, “i più grandi cuochi siciliani”, facendo spirare il vento iodato delle cozze appena aperte sul piatto.
Per finire Alessandro Negrini e Fabio Pisani, giovani cuochi della casa, hanno presentato la ricetta originale: un classicissimo dell’arte povera degno di un Pistoletto, capace di entrare nella storia con cipollotti, peperoncino, alloro e pomodorini del piennolo. In chiusura la presentazione del giocoso progetto Aimo-d, ingrediente top secret di via Montecuccoli: perché il pensiero di Aimo, precursore del lusso della semplicità e del ritorno entro le colonne d’Ercole del prodotto, va codificato e trasmesso in chiave rock alle giovani generazioni.
In chiusura della parentesi, Viviana Varese del ristorante Alice di Milano ritira il premio Identità vincenti a Milano, consegnato da Alfredo Zini, vicepresidente di Fipe, Federazione italiana pubblici esercizi.
AM
 
     
     
     
     
 
Lo Spirito dell’Utopia di Gaston Acurio
 
     
 
“La cucina migliora il mondo”, ha esordito Roberto Restelli in apertura di congresso, facendo aleggiare di fronte agli occhi dei congressisti il flauto magico sotto le sembianze di un mestolo fatato. Giacché anche il buon cibo, come la musica di Mozart, può servirci per “attraversare lieti l’oscura notte” che ci tiene in ostaggio.
La prolusione, degno cappello alle nuove ambizioni della cenerentola ingrembiulata delle arti, non poteva calcare toque più azzeccata di quella di Gaston Acurio, leader maximo della nuova cucina latinoamericana. Un virus che sta contagiando i congressi di tutto il mondo con la febbre di una urgenza viscerale, engagée senza dismettere il sorriso e il passo di danza. Pronta a sconvolgerci come il realismo magico prese a sberle esauste avanguardie letterarie.
È un ceviche fantastico, allora, quello di Gaston: dove il realismo del prodotto autoctono mette le ali grazie all’afflato umano, ecofriendly e parapolitico. L’emancipazione sta nell’unione del popolo attraverso il cibo, tratteggiata da Luciana Bianchi: campesinos, indigeni, gourmet, ricchi e poveri si mescolano agli eventi di Astrid & Gaston, agguantando la zattera dell’identità nel tourbillon di un continente che sfreccia. Perché il piatto è per la società: la sfida vuole riportare al centro di qualsiasi scena i contadini e i pescatori, valorizzando la biodiversità di un paese che vanta 85 zone climatiche diverse, centinaia di varietà di mais, peperoncini e patate, lime autoctoni piccoli eppure grandissimi, cipolle che fanno piangere di felicità. Da affabile narratore onnisciente, Gaston fa transitare per le sue labbra moltitudini di personaggi multicolori, carichi dei loro sapori e di una storia millenaria.
Le ricette del ceviche perfetto, sabotate da un sequestro all’aeroporto e ripescate al mercato di Milano, contemplano branzino, peperoncino, aglio, asparago crudo e lime. Scampi e frutta, con la zampata materna di un latte di tigre al corallo e alla capasanta. E ancora cozze e calamari in una selvaggia crema di ricci. Oppure, in versione calda, sgombro, mele, pere, radicchio, ravanelli, patate dolci e succo di mandarino. Mentre la lunga marinatura acida e piccante ha ceduto il passo alla fugacità di un bacio rubato grazie alla diversa qualità delle materie prime.
Le correnti calde e fredde dell’oceano congiurano con i minerali della terra per elevare un’ode alla freschezza. Quale pretesto migliore per un patto sociale fra produttori e raccoglitori di terra e di mare? Dove l’acidità, il piccante, la biodiversità diventano l’allegoria di una ricomposizione generale dei contrasti. Quasi un’utopia del terzo millennio, che sembra resuscitare in chiave gastronomica le architetture oniriche di Fourier e Saint-Simon.
Al termine dell'intervento, Sara Peirone, responsabile top gastronomy di Lavazza premia Gianluca Fusto, pasticcere dell'anno 2012.
AM
 
     
     
     
     
 
Derby Cedroni-Uliassi, pareggio con gol
 
     
 
A leggere la voce “cucina” sulla pagina dedicata da Wikipedia a Senigallia, la fama culinaria della città è dovuta a frittura di pesce, porchetto al forno, pizza al pecorino, salame di frattula, brodetto alla senigalliese. Stop. Proprio vero che la mitica Wiki aiuta, ma non basta. Perché per Identità Milano – e per ogni serio palato gourmand sull’orbe terracqueo – l’antica Sena Gallica (detta così per distinguerla dalla Sena oggidì Siena) è la città della magnifica coppia Mauro Uliassi-Moreno Cedroni, cimentatisi ieri in un derby gomito a gomito sul palco della sala auditorium, loro che cucinano di solito a quattro-chilometri-quattro di distanza. «Ecco a voi le nostre comuni radici che sfociano in diverse interpretazioni, utilizzando gli stessi ingredienti», spiega quindi il primo in gran forma. Che la fa davvero sporca, letteralmente, lanciando la sfida iniziale: seppia, molto cucinata in tutta la costa adriatica, previa attenta eviscerazione. Uliassi però la vuole manipolare al minimo, così galeotto fu il suggerimento degli “Amici del molo”, una confraternita di vecchi marinai: «Se il pesce lo pulisci troppo, gli togli l’anima». Via allora solo la loro sabbia, le viscere rimangono, giù di griglia ed è subito un’esplosione iodica e fenica, che nel piatto trova eco adeguata: salsa a base di fegato della stessa seppia, granita di ricci marini, carbone al nero e bouquet di erbe aromatiche, che arricchisce di clorofilla e note vegetali. Cedroni risponde chiamando la mamma e reinterpretando a suo modo un piatto classico, seppie coi piselli e l’uovo (qui c’è il daikon, la bruschetta è liquida…). Pari.
Secondo match, terreno di gioco le cannocchie. Uliassi le pensa tradizionali, olio-limone-prezzemolo, e le modernizza cotte con acqua di vongole, dai carapaci estrae il succo e ci fa anche il brodo, poi maionese alla cannocchia , cubi di bianco di cedro, salsa di prezzemolo et voilà i giochi sono fatti. Cedroni la chiama pannocchia ma sempre di squilla mantis si tratta, sfumata al cognac, poi servita con salsa di carciofi, patata dolce, carciofi croccanti e ravioli al vapore. Last but not least la selvaggina, richiama le Marche di terra che si fondono con quelle di mare. Uliassi propone l’alzavola, un piccolo anatroccolo che vive nelle foci del fiumi e si ciba di alghe e sementi. Come la serve? Con alghe e sementi (papavero, zucca, lino, girasole) tostate, ça va sans dire, tocco finale di trito d’ostrica su civet dell’alzavola stessa e olio di perilla, un’erba che regala l’indispensabile nota vegetale. Risponde alfine Cedroni: baccalà in olio cottura su letto di lepre cruda (ragù, verdure) ricoperto di una salsa di lepre cotta (con patata dolce, pomodoro, scalogno, carote… note dolci e salate insieme). C’è persino il sangue del povero animale, in realtà una riduzione di ribes e un brodo leggero di lampone, così gli animalisti non si impressionano troppo.
CP
 
     
     
     
     
 
Lorenzo Cogo, semplicità apparente
 
     
 
Sembra nata per lui l’intera giornata dedicata a grandi cuochi non ancora trentenni. Lorenzo Cogo apre la mattinata sostenendo di voler fare una lezione semplice, raccontando la sua cucina oggi e si smentisce subito: L’Acquario è un piatto giocoso che viene servito come snack nel suo appena nato ristorante El Coq, un modo informale per introdurre il cliente al racconto di questo ragazzo e della cucina che chiama “istintiva”. In un semplice vasetto di vetro Cogo racchiude le culture che ha conosciuto e fatto sue crescendo per il mondo: granita di dashi, preparata congelando il brodo di alga kombu aromatizzato al katsuobushi, (tonnetto giapponese in scaglia), asparago di mare e cozze e fettine sottili di kumquat e fumo di legno di faggio. Nulla di più semplice, il profumo di affumicato riempie la sala quando si apre il vesetto e ricorda gli insegnamenti appresi sulle griglie di Etxebarri insieme all’essenzialità e il gusto dell’Oriente. “La cucina oggi non punta sull’estetica, ma sul contenuto delle cose” dice e nel suo ristorante cerca usa il più possibile la brace, perché permette di lavorare in modo diretto sul prodotto e “concentrarsi sul solo piatto, pulendo tutto il superfluo”. In linea con il pensiero preciso e sicuro di Lorenzo anche la seconda ricetta mostra l’essenza di un modo di intendere la cucina che raggiunge immediatamente l’ingrediente, mai con semplicità, ma sempre con l’unico intento della degustazione. “Omaggio alla barbabietola” racconta il gusto di un tubero che fino a pochi anni fa non era contemplato in nessuna cucina: una base di yogurt, latte e yogurt disidratati creano l’acidità che contrasta il dolce della rapa, una gelèe di martini rosso usa l’alcool per lo stesso motivo e la barbabietola è in budino e in scaglie essicate. “E’ un piatto che posso giocarmi liberamente” e allude al desiderio di superare la rigida divisione in portate tutta italiana. Quasi senza accorgersi, in chiusura Cogo sintetizza ancora meglio il suo essere cuoco venticinquenne oggi, concreto e creativo insieme quando ha chiesto a un medico sportivo: “trovami gli elementi base, che servono a gli atleti, perché ottengano le prestazioni migliori”. Lo scopo? Costruire un piatto a partire da quegli aminoacidi che risultino commestibili. Una nuova sfida che si potrà gustare in maggio al Museo delle Scienza e della Tecnica di Milano alla mostra itinerante Sport your Food organizzata da Paolo Marchi e Rossella Canevari.
CT
 
     
     
     
     
 
Daniel Berlin: scappo dalla città
 
     
 
“Sono scappato dalla città perché sentivo troppa pressione, avevo bisogno di spostarmi in campagna, più vicino alla natura, dove posso avere un contatto diretto con tutti i fornitori e produttori”. Coscienza della sostenibilità, prodotti etici, voglia di rispettare e migliorare l'ambiente circostante: dal palco della Sala Blu, Daniel Berlin spiega come sia riuscito a dar finalmente forma alla sua idea di cucina nel vecchio casolare trasformato in un intimo ristorante, il Krog i Skåne Tranås, aperto solo da aprile a ottobre, causa neve. Con un orgoglio speciale: a servire ai (pochi) tavoli oggi sono i suoi genitori, dopo aver cucinato per lui fino allo svezzamento culinario. La prima ricetta presentata è il Merluzzo con rafano freddo, mele e cetriolo marinato.
Un piatto tipicamente estivo – per quelle latitudini – di grande freschezza, dalle note leggere, quasi femminili. Anche se cotta (la temperatura di cottura non supera mai i 32°C) la carne sembra cruda, mentre le mele – di cui, solo nella zona, si coltivano oltre 400 varietà – sono conservate sottovuoto nel loro succo naturale. Per completare il piatto aggiunge fettine di cetriolo in una salamoia di aceto svedese fatto con zucchero, yogurt e miele, anche questo rigorosamente locale. È una ricetta ispirata al maestro di Daniel Berlin, quel Thomas Dreijing, grande incompreso (dalla critica, non dai colleghi, presso i quali godeva di grande stima) dell’avanguardia svedese, che già 25 anni fa al ristorante Petri Pumpa proponeva una “nordic cuisine” a base di radici e teste di pesce. Ed ecco il secondo piatto: Testa di merluzzo leggermente affumicata con cavolfiore con burro brunito e sale e uova di merluzzo essiccate, una sorta di bottarga home made fatta facendo seccare le uova con zucchero sale e aneto. “Uso la testa del merluzzo perché mi piace la consistenza della polpa, resta umida, morbida e cremosa ma normalmente amo cucinare tutte le parti del pesce, branchie e gola compresa”. Per insistere sul concetto di localismo e di fiducia nei suoi fornitori – che a volte sono anche parenti, non solo amici – presenta attraverso un video fatto con l’iPhone il suo pescatore di fiducia, quarta generazione di una famiglia per cui il mare e la pesca sono tutti.
Un energumeno barbuto intento a uscire dal glaciale mare del Nord in maniche di camicia, con in mano quello che Daniel chiama semplicemente “spaghetti di mare”. Un'alga raccolta nel mare dove lo chef è nato e cresciuto. Bisogna conoscere quello che ci circonda per imparare a rispettarlo.
FDCV
 
     
     
     
     
 
Enrico Panero: contrasti apparenti
 
     
 
Enrico Panero fa parlare i suoi piatti, chiari e semplici per descrivere le convinzioni su cui basa la sua cucina. La lezione si chiama enigmaticamente “Contrasti apparenti”, filo rosso che lega la sua storia e i piatti che cucina. Nato nel cuneese solo 25 anni fa, incontra la cucina del prodotto eccellente a Pollenzo con Guido. Per arrivare a Genova dove da otto mesi dirige il Marinall’interno di Eataly non sceglie certo la Milano-Serravalle, ma un percorso ancora più tortuoso che lo porta all’estero: dalle griglie di Etxebarri passando per due anni di cultura nipponica e poi statunitense per aprire i nuovi Eataly. Con cui si trova in completa sintonia di idee e filosofia. Il crudo di Palamita, trenette e acciughe è la prima ricetta proposta: c’è il ricordo del Giappone in un piatto che è tutto ligure, rassicura nella sua presentazione e stupisce piacevolmente per l’abbinamento della pasta calda sul pesce crudo. La prima, profumata da limone verde nell’impasto, è fresca e aromatica, la seconda dialoga con il sugo di acciughe e mostra con naturalezza la grande versatilità del pesce azzurro, troppo a lungo considerato pescato minore. Con la seconda ricetta Enrico ricorda la sua infanzia adagiando una triglia su suolo piemontese con una crema di topinambur. Il contrasto apparente è creato da una fetta di foie gras appena scottato, una presenza ingombrante solo nell’idea, perché il viaggiatore Panero ne utilizza la grassezza senza renderlo protagonista e esaltare il gusto tutto mediterraneo della triglia farcita di pomodorini, pinoli, basilico e scorza di limone. Il pesce è racchiuso in due croccanti cialde di “marinara”, una focaccia tipica ligure che cuoce in una teglia e assume le dimensioni di un panettone e il gusto pieno di una focaccia. Esperienze di culture differenti, grandi esempi di tecnica e maestri del rispetto della materia prima permettono così a Enrico di proporre una cucina con i piedi in Liguria vista mare e la testa sempre in giro per il mondo.
CT
 
     
     
     
     
 
Pietro Leemann e il quoziente di felicità del cibo
 
     
 
«Il cibo è una filosofia messa in pratica». Così Pietro Leemann ha aperto Identità Naturali (in foto è con Lisa Casali, presentatrice dell'intera giornata). Non poteva che essere lo chef del Joia -che da 20 anni propone una cucina gastronomica vegetariana nel centro di Milano - ad avere questo ruolo. All’epoca era un alieno, oggi è un avanguardista ma – dice lui – tra dieci anni sarà la normalità perché si sta diffondendo una nuova consapevolezza alimentare. «le nostre scelte cambiano molte cose della nostra vita» prosegue, e naturalmente si riferisce in primis a quelle alimentari. Nella sua cucina sono inscindibili i due aspetti del “buono”, quello legato al gusto e quello legato al benessere. Senza che il secondo vada mai a discapito del primo: come in alcuni paesi orientali, a Leemann piace misurare il grado di benessere in base alla felicità. I suoi piatti sono non solo senza carne e pesce ma anche senza uova e frumento (la nostra alimentazione ne è già troppo ricca) e con ingredienti biologici, stagionali e locali. O mio caro pianeta (evoluzione di un piatto degli anni ’90) è un semi-globo terrestre di verza croccante che racchiude una torre di rondelle di coste fritte e terrina di verdure: addensate con agar agar, sono messe in torcione, tagliate, passate nella farina di riso e “scaloppate” come fosse foie gras, ricreando la stessa consistenza del prodotto a più alto tasso di goduria e crudeltà, ovviamente bandito dal Joia. Paesaggio Interiore , è una rielaborazione dei pizzoccheri valtellinesi secondo l’insegnamento orientale: acqua bollente per amalgamare la farina di grano saraceno, povera di glutine.Tirata come una normale pasta, se ne ottengono dei dobloni sbollentati e sistemati in un piatto dove – come anche negli altri – predomina la forma tonda: cerchi concentrici di salsa di cavolo rosso e di zucca e zafferano, fette di rapa spadellate e sui “pizzoccheri” una salsa di cavolfiore e olio al rafano, equivalente occidentale del wasabi. Relazione Privilegiata è quella dello chef con la natura, ma anche il nome del terzo piatto: il pane chapati viene cotto su delle pietre roventi raccolte dallo stesso chef nel fiume dietro casa sua, e poi ad esso ridonate. Le verdure – carciofi e cavolo nero – vengono fatte cuocere in forno tra due tavolette d’argilla; il tutto viene finito in sala con una “salsa bernese” all’arancia senza uova, ricotta di capra e un pesto di radicchio e olive. Relazione e trasferimento di energia dunque: dalla campagna alla città, dalla cucina alla sala, dallo chef ai suoi clienti. Che escono, senza dubbio, felici.
LS
 
     
     
     
     
 
Salvini, il seme e le basi della cucina vegana
 
     
 
Zarathustra, Platone e Leonardo Da Vinci erano vegetariani: alla fine non siamo in cattiva compagnia”. Più che una scelta di cucina, quella di Simone Salvini è una vera e propria filosofia di vita, che trasmette attraverso l’Organic Academy, ovvero l’Accademia di alta cucina naturale e vegeriana .
Ma l’approccio di Salvini è diverso da come molti intendono l’essere vegetariani e vegani: “Tante volte la scelta di questo tipo di alimentazione viene spiegata con delle negazioni: né uova, né miele, né latte, né lana… Invece vogliamo trasmettere un valore positivo. Anche perché la dieta vegana ha un’offerta molto ampia di scelte. Non parliamo più di privazioni”. Anche perché è legato un valore salutistico, visto che il suo intervento è stato anticipato dalle parole di Elisa Invernizzi, della Fondazione Umberto Veronesi: “Il professor Veronesi è vegetariano, anche perché ritiene che l’essere umano è pacifico. Per questo motivo non è carnivoro, non uccide e non fa soffrire gli animali”. Senza dimenticare che la Fondazione, anche tramite la cucina vegetariana, porta avanti un progetto per la prevenzione e la diagnosi precoce delle malattie, anche attraverso la giusta alimentazione che diminuisce il rischio di patologie.
Salvini è voluto andare alla base della cucina vegana, tenendo come filo conduttore il seme: “Da lì nasce tutto. E’ anche il simbolo dell’inizio di un viaggio”. Semi che vengono utilizza per le preparazioni base e per i semilavorati. Così lo chef non si è concentrato nella preparazione di piatti di alta cucina, ma è tornato alle origini, cercando di spiegare come fare a casa alimenti quali il seitan e il tofu. “Il seitan che, tradotto, significa carne vegetale – ha raccontato Salvini – ma è anche Ricco di forza”. Tecniche semplici, ma che necessitano di passione e di pazienza, che verranno anche descritte nel suo libro, in uscita a marzo.
Benessere, filosofia e cultura: tutto racchiuso nel Risotto alla zucca gialla preparato da Salvini con del “burro vegano”. “Burro che in realtà è realizzato con le mandorle tritate e i semi di zucca”.
RF
 
     
     
     
     
 
Pietro Zito: sapore di terra
 
     
 
“Mio nonno amava la terra. Nel 1961 aveva lasciato scritto un suo memoriale sul suo rispetto. E diceva: se non c’è la terra, non c’è niente. E questo, oggi, è ancora più attuale”. Pietro Zito, pugliese, ha le radici ben piantate nella sua Puglia. Così profonde da voler portare un pezzo della sua terra, della sua campagna, proprio a Milano. “La terra è importantissima: quando è incontaminata, regala aromi, profumi e sapori unici”. Senza contare che dalla sua terra attinge materie prime uniche: “Ricavo gli ingredienti per i miei piatti direttamente dal mio orto. Non voglio mettermi in competizione con i grandi chef, ma in compenso ho le verdure del mio orto di 15 mila metri quadri e ho tanta conoscenza del prodotto. Quando si è iniziato a parlare di chilometro zero, io lo facevo già da tanto tempo”. Senza contare che Zito, nel suo Antichi Sapori di Montegrosso di Andria vuole anche riproporre “i profumi di un tempo, quelli di un buon basilico o di un buon carciofo”. E portarli a tavola senza contaminazioni, “per emozionare e trasferire tutto il prodotto al tavolo”. E la terra viene usata anche per cucinare. La sua ricetta è una riproposizione della classica tiella pugliese, piatto che prende il nome dal recipiente in terracotta in cui si possono cuocere carni o verdure. Anticamente, quando si stava in campagna e non si avevano a disposizione altri modi di cottura, si metteva il tegame coperto direttamente sulla terra calda dove si era fatta la brace, e si ricopriva coni carboni ardenti: una cottura indiretta a bassa temperatura arcaica, dai tempi lunghi, che regala al piatto anche l’inconfondibile profumo della terra incontaminata. Zito la ripropone mettendo in un tegame ampio la “sua” terra e dei rami (olivo, alloro, mandorlo) a ricreare il carbone. Dentro, ci va il tegame in cui alterna gli ingredienti a strati: olio di Coratina dal sapore intenso, la tradizionale mollica arriganata (pane raffermo a lievitazione naturale, aglio, prezzemolo e pecorino canestrato), patate affettate sottili, pepe, carciofi (quelli violetti della sua zona) tagliati sottili, grano decorticato (o meglio, integrale e ammollato per una notte), pomodorini a filo (essiccati, per un concentrato di sapore) e gli sponsali (sorta di cipolle dal sapore prorompente, a cui gran parte del suo orto è dedicata) tagliati a julienne, sale grosso marino, di nuovo patate a sigillare il piatto e aiutare la cottura. Si copre d’acqua e mollica, coperchio e poi in forno con la terra, per ricreare un forno “agreste”. Un salto nel passato, per tornare ai suoi Antichi Sapori e alla sua Puglia.
LS e RF
 
     
     
     
     
 
Indio e gourmand: l'Amazzonia di Atala
 
     
 
La cucina di Alex Atala? Un connubio permanente di primitivo (gli ingredienti, in buona parte provenienti dall’Amazzonia) e moderno (la tecnica). Queste le premesse con il quale la platea ha accolto lo chef paulista dall’esclusiva mission in cucina: «La mia tavola dev’essere poesia, sapore, ma anche d’aiuto al popolo locale». Impegno umanitario pro-indios e delizia mandibolare pro-buongustai, dunque: l’insolita dialettica tra i due elementi parte dal mare, dal pesce. Di più: da certo pescato “fuori commercio”, fornito da piccoli pescatori; come, in questo caso, l’agulha, dalla testura delicata e particolare, che il dominus del Dom (bisticcio voluto) sposa all’aggressività del “latte di tigre”, un succo ottenuto frullando limone, pezzi di pesce, sedano, peperoncino non piccante e cipolle, in un abbinamento marinato al sapore di ceviche. Si serve il tutto con lamelle di cuore di pupunha, una varietà di palma amazzonica che regala in bocca sensazioni neutre (ed è pure eco-friendly), poi ghiaccio di rapanello, sale piccante ottenuto dalle alghe e banana liofilizzata per fornire una nota dolce finale. Atala si spinge a 200 km da San Paolo per trovare poi il riso nero (esempio di piccolo business agroalimentare: «Era considerato un riso malato, solo una famiglia continuava a coltivarlo. Era alla fame, ora ha successo…») necessario alla propria successiva ricetta: il cereale viene tostato per fargli perdere la consistenza un po’ gommosa; in padella vanno funghi champignon, peperoni verdi, porri, piselli e asparagi, tutti vegetali che, insieme a un sedano sbollentato, guarniscono il riso aromatizzato al latte di noci brasiliane. L’urlo della foresta risuona invece quando alla papaia verde nixtamalizzata (la nixtamalizzazione è un antico procedimento che consente di ottenere vegetali croccanti fuori e morbidi dentro) si abbinano priprioca, radice aromatica usata anche nella medicina tradizionale, neve di bacurì, ossia un frutto amazzonico con sapore floreale e vaghi ricordi di litchi, e yoghurt bianco. Ultimo piatto hard, di puro assemblaggio gourmand e con un obiettivo da orco: non deve piacere ai bambini… Dunque pennellata di cioccolato amaro, goccia di olio al peperoncino brasiliano (piccantissimo!), biscotto, rucola, curry e gelato di whiskey. Hot, decisamente vietato ai minori.
Meno male che subito dopo interviene Alfredo Pratolongo, direttore Comunicazione e Affari istituzionali di Heineken Italia, a consegnare a Claudio Sadler il premio birra in cucina. Con loro, Giuliano Baldessari, sous chef delle Calandre e vincitore della prima edizione del Premio Birra Moretti Grand Cru.
CP
 
     
     
     
     
 
Roberta Sudbrack, la Rio che non c'era
 
     
 
“Una farina di mais così buona non può scomparire”. A dirlo è un’anziana donna di Itabirito, piccolo paesino dello stato di Minas Gerais dove una famiglia di contadini produce con sapienza una farina speciale.
Roberta Sudbrack, chef dell’eponimo ristorante al Jardim Botanico di Rio de Janeiro, risponde ogni giorno, dalle sue cucine, all'appello di questi e di altri piccoli produttori locali. “Il mio grande obiettivo – racconta la ex chef del Presidente Cardoso – è divulgare ingredienti sconosciuti e trattarli con lo stesso rispetto con cui queste famiglie contadine lavorano le loro materie prime. Cerco di fare una cucina moderna ma che non lasci indietro il passato, in cui si possa percepire il calore del fuoco a legna”. Il primo ingrediente di cui Roberta Sudbrack si fa ambasciatrice è l’ocra, (o quiabo) in italiano più conosciuta come gombo, un ingrediente spesso al margine delle insegne gastronomiche di livello perché non apprezzata dal pubblico per via di una sorta di “bavetta” al suo interno. Che invece, una volta concentrata, può diventare una gelatina, una sorta di caviale naturale che esplode al palato.
In altre parole: conoscere gli ingredienti, guardarli con altri occhi, cambiarne la percezione. L’ocra viene affumicata, prende il sapore del forno a legna, diventa un filetto e viene riempita con il gamberone, poi servita nel piatto insieme al “finto” caviale, con un filo d’olio d’oliva e un mix di pepe. È una ricetta regionale molto consumata e apprezzata in diverse parti del Brasile, da Minas Gerais a Bahia. In un altro dei piatti presentati il gioco è lo stesso: cercare di cambiare il punto di vista, la prospettiva, le aspettative. Di una banana solitamente si apprezza la dolcezza, non l’acidità, che è invece il gusto che la chef trova – schiacciando la polpa con succo di lime - per abbinarlo, in contrasto, alla sapidità del caviale (quello vero), alla dolcezza del curai (un grano chiaro locale), e all’amaro ancora della banana, stavolta tagliata in rondelle, essiccate in forno e frullate fino a farne una polvere.
Ultimo piatto il consommè di mexirica (succo di mandarini) con funghi crudi, fleur de sel, grana padano (omaggio all’Italia, paese che Roberta ama spudoratamente e in cui viene a passare ogni anno le vacanze), rapadura (zucchero di canna concentrato in blocchi, come fosse formaggio, e poi grattuggiato, ingrediente molto energizzante e intenso) e germogli di barbabietola.
Ingredienti freschi, legati alla terra, perché non è solo la memoria affettiva il chiodo fisso di questa ambasciatrice della nuova cucina brasiliana, ma è anche il mercato: “Credo che sia importante cambiare la carta ogni giorno, in base agli ingredienti freschi. Sono i miei fornitori, in fondo, a decidere il mio menù”.
FDCV
 
     
     
     
     
 
Il vocabolario paulista di Rodrigo Oliveira
 
     
 
Dopo Roberta Sudbrack da Rio de Janeiro, è il volto solare e la voce suadente di Rodrigo Oliveira, 31 anni, a salire sul palco, spot paulista in carne e ossa del Brasile che cambia pelle e si presenta con orgoglio al mondo, anche in vista dei prossimi appuntamenti sportivi. 500 clienti al giorno e 20mila al mese: il Mocotó - coda di bue in portoghese – dal piccolo emporio del padre, Seu Jose’s Bar, è cresciuto fino a diventare una delle insegne – ristorante e cachaçaria - più emblematiche di San Paolo e della cucina brasiliana contemporanea. Ma non pensate a un luogo “fashionista” e senz’anima. Tutt’altro: una cucina democratica, colorata, che riflette le migliori qualità della terra brasiliana e che custodisce le antiche ricette e tecniche, anche le più semplici, quelle che per i nuovi snob dell’alta cucina non dovrebbero trovar posto in carta.
Il mocofava con torresmos especiais è il piatto signature della casa, una versione del mocotó con le fave (quelle gialle, perché in Brasile ce ne sono una quantità infinita di varianti, ognuna con il suo nome: bianche, rosse, al burro) e i “ciccioli” di maiale, servita con una spolverata di coriandolo.
Nel secondo piatto Oliveira dedica, invece, un’ode a Pirangi, località balneare celebre per il cajueiro, albero del cajú, il frutto che lo chef interpreta fresco, confit e con la sua noce tostata all’interno del proprio guscio, quello che noi conosciamo semplicemente come anacardo.
Il risultato è un piatto di bei contrappunti dolce/salato: ad esempio quello tra la crema, molto simile a un dulce de leche, il frutto dorato con una crosticina croccante di zucchero e la noce di cajú. Per la cronaca, con il frutto si ottiene la cajuina, un succo acido e astringente che può diventare una bibita molto gradevole e dolce. Al Mocotó diventa l’ingrediente perfetto per la caipirinha della casa.
FDCV
 
     
     
     
     
 
Jordi Vilà, dirimpettaio mediterraneo
 
     
 
L’Alkimia di Jordi Vilà è un’alta cucina prêt-à-porter, di mercato e stagionale, che si base su tre principi base: prodotto, interpretazione ed eredità catalana. «Cucinare è un atto di sincerità verso se stessi – spiega lui alla platea dell’auditorium – Dobbiamo usare i prodotti nei quali crediamo» che sono peraltro, come spiega Marco Bolasco introducendo la lezione dello chef catalano, quelli stessi del nostro mar Mediterraneo, perché «Vilà è come un vicino di casa, a Barcellona usano le materie prime che ci sono familiari, solamente le interpretano in modo un po’ diverso». E’ la nuova cucina barcellonese di territorio, appunto. Sono, queste, logiche che emergono prepotentemente in un piatto ormai classico all’Alkimia, Mari e monti di ostrica e musetto di maiale. Ecco dunque il prodotto, ecco anche l’eredità catalana (Mari e monti è un classico della tradizione di quelle terre: cicale di mare con il pollo, seppie con polpettine di carne…), infine l’interpretazione personale che impiatta su un letto di spinaci bagnati nel sake, a conferire persino qualche nota alcolica, il musetto glassato e tagliato a mò di ostrica e poi quest’ultima, nella versione marinata alla cipolla. Un gioco di affinità che si rifinisce di crumble di nocciole, pepe, coriandolo… «Esaltiamo la somiglianza/differenza tra le due componenti principali, sono mondi diversi che trovano purtuttavia una loro omogeneità di fondo anche se noi, cucinandoli, li separiamo ancor più», conclude lo chef tra gli applausi. Meritati anche per un’altra ricetta presentata ieri a Identità Milano: ci si spinge infatti fino alla Galizia per trovare la materia prima ittica grassa a sufficienza per poterla abbinare alle cipolle dolci di Figueres, il tutto cotto su una sorta di soffritto alla basca, sapido ensemble iberico a tutto gusto. Olé!
CP
 
     
     
     
     
 
Berton/Fusto: l'unione dei ruoli
 
     
 
In una giornata che, in sala auditorium, ha messo in scena contaminazioni, connubi, unioni apparentemente contro natura, a chiudere le lezioni pomeridiane è stata una strana coppia, quella composta da Andrea Berton e Gianluca Fusto. Due nomi propri, cinque caratteristiche: rigore, precisione, materia prima, dettagli, evoluzione. Scienziati del gusto dunque, ingegneri del sapore che hanno però scoperto solo empiricamente, «cucinando insieme», quel che poteva accomunarli nel comune tentativo di avvicinare i mondi opposti dal quale provengono, quello salato e quello dolce. La tecnica della pasticceria entra in cucina, ad esempio, in un piatto come l’Insalata mista liquida, dove l’insalata (salicornia, glacialis e foglie d’ostrica) viene resa liquida frullandola e apportando una componente zuccherina; l’oliva di ogni buona salad è in paté, che si lega in una crema al cioccolato, ingrediente feticcio di Fusto, con po’ di sale a regalare note iodate. Poi la parte croccante: il topinambur, o meglio la sua corteccia che viene cotta, essiccata e infine fritta. Si conclude col condimento: limone d’Amalfi che viene prima addolcito con lo sciroppo, quindi gelificato e montato come una mousse. E l’antipasto è servito!
Ma il primo piatto dolce/salato? Ecco a voi i “nuovi” spaghetti alla carbonara, con le quattro componenti classiche (pasta, uovo, bacon e pecorino) ribaltate in un gioco di strutture e densità. Gli spaghetti vengono marinati negli agrumi e poi dolcificati, cotti e raffreddati in olio di mandorla, che regala i propri sentori; l’uovo è in una crema inglese al glucosio atomizzato (che dolcifica meno e lega di più); il pecorino è in emulsione; il bacon cotto al microonde e poi tritato per fornire la componente croccante. Tocco finale, una gelatina di pepe nero.
Ultima idea-provocazione, il dolce, che a questo punto sarà anche salato: una bignolata in cui i bigné all’olio, svuotati e resi croccanti all’esterno, sono riempiti con una crema ottenuta centrifugando peperoni; il liquido così ottenuto viene unito in una crema a base di cioccolato bianco; completano un’emulsione al prezzemolo e una crema di limone e, di nuovo, cioccolato bianco.
CP
 
     
     
     
     
 
Sergio Humada, nel nome del padre
 
     
 
Radici basche, attualità Catalana e influenze Mediterranee. La realtà di Sergio Humada, figlio d’arte della cucina spagnola, è quella di un ragazzo di 26 anni, dalla faccia pulita e dalla idee ben chiare. Alcune delle quali che ha preso direttamente dal padre, Juan Mari Humada, storico cuoco della Nuova Cucina Basca: “L’insegnamento che mi ha dato – spiega il giovane chef del ristorante dell’hotel di lusso Alma, a Barcellona – si basa su due concetti fondamentali: il rispetto per il prodotto e il rispetto per il cliente. A me piace cucinare, e mi sembra quasi strano essere qui su un palco, a Milano, a parlare”. Humada ha spiegato cosa significa proporre una cucina low cost in un hotel di lusso, con tanto di centro benessere. Ma il benessere lo si trova anche in cucina. “Le mie ricette si basano su ingredienti baschi fusi con la cucina catalana. E ci sono anche delle influenze mediterranee”. E questo lo fa all’Alma, una catena con locali in varie parti d’Europa, come – appunto - Barcellona, Siviglia e Berlino. “Volevano una linea di cucina al passo con i tempi, e l’hanno chiesta a me”. Così ha fuso le conoscenze tradizionali e tecniche avanzate. Gli esempi di questo stile, sono i due piatti preparati sul palco di Identità Milano. Il primo era un piccolo aperitivo, ovvero una crema fredda di formaggio Idiazabal, sorbetto di pomodori affumicati, insalata di germogli e pane di segale. “L’Idiazabal è un formaggio locale, ma si possono utilizzare anche altri tipi di formaggi a pasta dura, come il Grana – spiega Humada – Dove trovo i prodotti per i miei piatti? Nel caso di formaggio e baccalà, utilizzo produttori storici miei e di papà. Per il resto ho ottimi fornitori: trovarli è difficile, ma è una grande soddisfazione quando li trovi. Io sono a Barcellona da soli 8 mesi e su questo fronte ho ancora molti compiti da svolgere”. Tradizione basca e attualità catalana si trovano nel Confit di baccalà “Pil Pil”, un piatto tipico basco che è stato rivisitato con passione e tecnica dalla mano sicura di Humada. Che sembra avere una maturità superiore ai suoi 26 anni.
RF
 
     
     
     
     
 
Stevie, senti chi Parle
 
     
 
Elemento comune agli altri ventenni della giornata, il viaggio ritorna spesso nelle biografie dei giovani d’oggi, in quelle dei cuochi anche. Stevie Parle è l’enfant prodige che il London’s Evening Standard aveva giudicato già un paio d’anni fa uno degli “hottest young chefs” della città. Oggi il “già” 24enne ha un posto tutto suo il The Dock Kitchen in cui cucinare i mondi che più l’hanno stregato nei suoi numerosi viaggi in ogni continente. Londra accoglie senza stupore cucine di ogni genere, ma la differenza che fa questo ragazzo è il modo in cui le fa sue e diventino espressione di una cucina contemporanea e vitale. “Il cibo vero” è la parola chiave di questa cucina, quello che cerca e che mette in pratica nel suo ristorante cambiando menu e continente ogni due settimane. Sono “autenticità” e “tradizione” quello che vuole far arrivare attraverso i suoi piatti. Oggi ha presentato ricette che dimostrano questi concetti tutt’altro che desueti, il risultato che si ottiene è un tuffo virtuale nei luoghi di provenienza della ricetta eseguita. Con la prima si vola in Sri Lanka e si impara l’arte degli string hopperdelle specie di pancake preparati con noodles di riso pressati con una sorta di schiaccia patate in foglie di bambù. Questi servono di accompagnamento al Dahl, la tipica purea di lenticchie condita con 7 spezie tostate e pestate. Parle, appassionato delle tecniche e degli strumenti racconta si è emozionato a trovare, proprio dietro le quinte di Identità un vero mortaio e pestello. E allora dall’oriente all’Italia il passo è breve se l’obiettivo è sempre quello di raccontare autenticità: gli “gnudi verdi all’olio d’oliva toscano” sono una ricetta che Stevie ha assaggiato già bambino in Italia, ma li ha incontrati anche a Londra e poi a New York e li ha voluti rifare. Non si tratta però di mancare di originalità, assicura, la sua creatività sta proprio nel permettere di ricreare il sapore e il gusto autentico e originale e con questo raccontare una cultura, delle materie prime e degli utensili inventati e costruiti per lavorarle al meglio.
CT
 
     
     
     
     
 
Le bolle di Aliberti, e il gioco è fatto
 
     
 
Una sala con tante bolle profumate. Per giocare e stupire con tutti i sensi. Franco Aliberti si è presentato con tanta allegria e con l’entusiasmo tipico dei suoi vent’anni. “La passione per la cucina mi è stata passata dalla mamma, che ha sempre coltivato la terra. Da lì arrivano i miei sapori, la genuinità di casa. Bisogna ricordarsi da dove si viene, quando si cucina”. E Franco Aliberti lo sa bene. D’altronde il papà era ferroviere, e forse da lui ha imparato a crearsi un proprio bagaglio di esperienze. Ora il suo treno si è fermato a Modena, nella splendida stazione che è l’Osteria Francescana di Modena, alla corte di Massimo Bottura, presente – per una volta - tra il pubblico. A Milano Aliberti, ha voluto proporre la sua sperimentazione sensoriale. “Il dolce è un qualcosa che raccoglie diversi sensi, non solo il gusto. E poi voglio ancora voglia di giocare, ma con la testa”. E qui nasce la sua versione della sua zuppa inglese, distribuendo un piccolo tubo per fare le bolle, da agitare, “per ritornare bambini”. “Abbiamo creato una soluzione naturale: in natura, infatti, esiste una pianta che cresce in India e Nepal e che produce noci, dette “saponarie”, perché hanno enzima sul guscio, la saponina appunto, che riesce a produrre sapone. Questa soluzione, che ci permette di fare le bolle, è aromatizzata al cardamomo”. Così la sala si è riempita di profumo, grazie all’esplosione delle bolle. Il tutto per realizzare un dolce classico, che è la zuppa inglese. “Ho preparato la salsa al cacao e la crema alla vaniglia, ed entrambe le ho trasformate in sfere. Mancava il savoiardo e l’alkermes, il liquore: con questo ho fatto un’altra bolla, un po’ più grande, che ha racchiuso le altre due, in una sorta di matrioska dolce”. Alla fine il risultato nel piatto: che però era ancora da girare e shakerare, per fondere gli elementi: e il gioco è fatto. E poi ci sono i ricordi, con riferimenti alla casa, al letto, alla tavola e al krapfen, “morbido, come un cuscino da abbracciare” e il profumo dei biscotti a caramello e caffè. “Ogni piatto – conclude - deve avere una carta d’identità: deve avere un’idea, un tema, una filosofia. Il piatto ha bisogno di una sua storia”. E di idee, Aliberti, ne ha davvero tante. Dolcissime ed entusiasmanti.
RF
 
     
     
     
     
 
Sgarra e i sapori della terra madre
 
     
 
La semplicità di volere portare in tavola i sapori della terra madre. Così è Felice Sgarra da Andria, ristorante Umami, che ha chiuso la giornata dedicata a quelle Identità Vent’Anni che diventeranno i protagonisti della cucina italiana di domani. Ma che infine sono una realtà ben consistente già oggi. Sgarra arriva dalla Puglia dove “si pensa ancora che il mangiare bene corrisponda al mangiare tanto”. Una terra che, come il conterraneo Pietro Zito , ama tanto da volerla rispettare, utilizzando con saggezza le materie prime che essa offre. “Stiamo vivendo un momento difficile, è inutile nasconderci – ha esordito Sgarra – Eppure, nonostante il periodo, cerco di volare in alto, con gli ingredienti pugliesi”. Materie prime che arrivano direttamente dalle coltivazioni di famiglia, come i cristauri, particolari erbe che crescono sulla Murgia. “Adesso ho iniziato anche a costruire, fuori dal ristorante, un orto didattico, che chiamerò Orto à portèr. Vuole essere un’area didattica dove far crescere le erbe aromatiche spontanee e dove realizzerò anche delle aree particolari, per stupire con tutti i sensi”. Stupisce nella sua elegante semplicità, Felice Sgarra, 29 anni e 364 giorni al momento di salire sul palco e pronto a festeggiare il compleanno nella seconda giornata di Identità Milano. Il piatto Spaghettoni di taralli con pomodorino di Torre Guarceto su pesto di cristauri e caciocavallo podalico è “una sorta di bandiera italiana – spiega Sgarra – dove cerco di avere il massimo rispetto per le materie prime, senza particolari evoluzioni”. E stupisce ancora con il secondo piatto, la millefoglie all’extravergine con mousse di parata e ricotta su gelatina di mela cotogna e mandorle pralinate. “Un dessert dove ho utilizzato pochissimo zucchero, giusto quello a velo, perché la dolcezza viene data dagli altri ingredienti”. E’ saggezza, quella di Sgarra, cresciuto nei campi, quando con il fratello gemello Riccardo, al posto di andare a giocare a calcio, lavorava nei campi con il padre. Sacrifici, che ora vengono ripagati.
RF
 
     
     
     
     
 
Enrico Crippa, memorie dal sottobosco
 
     
 
Difficile abbinare l’idea di “cucina naturale” con quella di cucina stellata? Niente di più sbagliato: lo dimostra alla grande Enrico Crippa , che propone tre ricette vegetali dove la ricerca gastronomica, l’esaltazione dei sapori e la “naturalità” vanno di pari passo.
Nel primo caso (le “insalate cotte”) innesca giochi cromatici e gustativi che sono concentrati di sapore. Le insalate (radicchio, scarole e altro) della serra di Piazza Duomo vengono cotte sottovuoto e insaporite con l’aggiunta di diversi “aromi”: dai peperoni di Senise alle “acciughe e olive” di memoria campana, all’olio di vinaccioli e olive taggiasche. Sistemate nel piatto a mo’ di tavolozza, vengono impreziosite con polveri colorate (sempre di origine naturale, dal riso Venere essiccato all’alga Nori) e con gli “oli essenziali” di cottura, per non perdere un briciolo di sapore. A dimostrazione che la verdura era nel DNA di noi italiani, mangiafoglie per lunga tradizione, ben prima che arrivassero i vichinghi sulle copertine dei food magazines.
Rape e salsiccia è un omaggio al territorio langarolo, dove la rapa è quella di Cervere e la salsiccia di Bra prende la forma di una polpetta. Perché “naturale” non vuol dire pitagorico, ma rispettoso delle materie prime, senza snobismi verso le più povere: “Se un giorno ne avessi l’occasione, aprirei un ristorante vegetariano” dice anzi lo chef. Il piatto però è solo apparentemente semplice. Le polpette sono ricoperte di gelatina di rapa – cotta fino a ottenerne una sorta di tè, poi addensato –, addizionate di cubetti di foie gras, tartufo nero, dadi e petali di rapa, erbette piccanti e germogli di rapa. In finitura anche l’olio di nocciole, emblema del territorio e materia prima sostenibile (i gusci si usano come combustibile per il riscaldamento).
A seguire la tinca “in carpione”, che interpreta l’attualissimo tema “oltre il mercato”, visto che la sua disponibilità dipende dai capricci della natura. I colori – naturali e incredibili– della livrea vengono riprodotti sul fondo del piatto con spruzzi di zafferano e nero di seppia. Ma la poesia scatta dall’ossimoro fra l’umilissimo pesce, tanto liscoso da essere ridotto giocoforza in polpetta, e la patina d’oro in omaggio a Marchesi che lo riveste. Senza rinnegare le idiosincrasie gustative di questo amante del fango, ma sferzandolo con la grinta iodata delle alghe. Un filo della tradizione impalpabile, che si concretizza e si dilegua a sorpresa, lasciando Teseo nelle vesti felici di un flâneur del labirinto gustativo.Altrettanto eleganti nell’impiattato cangiante e nella sensibilità gustativa sono le tagliatelle di salsa di pomodoro alla maizena per celiaci; la rilettura della lepre alla royale, con cavolo nero, salsa di foie gras, salsa di vino rosso a evocare il sangue, ginepro e cardamomo nero per il camino; nonché l’inedito bunet orizzontale, tavolozza per foglie di caffè e torta di nocciole, polvere di tartufo e corteccia di grano saraceno. Per chi ama le intermittenze fra la vista e il gusto, la memoria gustativa e la trama del sottobosco attaccata alle suole delle scarpe.
LS e AM
 
     
     
     
     
 
Le radici spartane di Peeter Pihel
 
     
 
In un’Italia attanagliata dalla morsa del gelo, la cucina boreale è salita sul palco nelle vesti del suo primo ambasciatore. Peeter Pihel, che lontano dalla Scandinavia degli apripista coltiva lo stesso culto della cucina di prossimità e del primitivismo. Un orgoglio nordico che gioca gli atout del territorio estone, unico per fattori naturali e storici. Le acque attorno all’isola, quasi dolciastre, come l’habitat intatto a causa del fortino sovietico che vi era stato insediato. Natura: impossibile non partire da lì. Nella dispensa orgogliosamente autoctona, letteralmente “oltre il mercato”, visto che sull’isola non c’è, vivono le istanze e le rivendicazioni di un paese che si è liberato da una lunga occupazione e dopo la sbornia consumista sta riscoprendo la propria identità. Radici spartane, che affondano negli ettari apparentemente avari della casa, manifestando un’abbondanza timida come i gesti e le parole di queste latitudini. Agli antipodi del mappamondo, la stessa sete di riscatto e urgenza esistenziale dei latinoamericani. C’è innanzitutto il crosne, un tubero detto “carciofo cinese” dal gusto simile al topinambur. Adagiato su un letto di vegetali e avvolto nella rete di maiale, è cotto nell’argilla come lo stufato di selvaggina che il padre gli propinava da bambino, per poi essere servito su rami di faggio, con l’aggiunta di salumi di produzione propria. Abituato a lottare con inverni che addormentano la natura per metà dell’anno e suoli che rattrappiscono alla profondità di un metro la propria capacità nutritiva, il cuoco estone raccoglie la sfida dei suoi antenati. Massimizzando le virtù della lunga esposizione alla luce e della naturalità di climi che fanno a meno della chimica. Ecco allora le patate autoctone e autoprodotte, tubero dopo la radice, quasi che il cibo cercasse la coltre della terra per proteggersi dal gelo. Sono le protagoniste del dessert che riprende una ricetta tradizionale con panna acida e marmellata, variandola con succo di betulla, crema di carote e briciole di pane nero.
AM
 
     
     
     
     
 
Puglisi e le grandi verdure a prezzi popolari
 
     
 
Chi l’ha detto che la cucina creativa dev’essere per forza cara? E che con le verdure si debba fare cucina vegetariana? E che per fare cucina “naturale” si debba stare in mezzo alla natura? Sfata tutti i miti Christian Puglisi, giovane chef nato in Sicilia e cresciuto in Danimarca. Quattro anni fa, era venuto ad Identità Golose come assistente di Redzepi. Oggi torna sul palco per presentare la sua cucina, in scena dal 2010 al Relae di Copenhagen. Un ristorante “urbano”, in centro città, dove realizza una cucina creativa ma non estrema. Piuttosto, una cucina di incontri e scambi tra ingredienti(pochi per piatto, non c’è bisogno di strafare) e culture: quella nordica, il Mediterraneo, l’Oriente. Ogni esperienza viene fatta propria e tradotta in nuove idee. Il tutto, utilizzando ingredienti “poveri”, verdure in primis (ma non solo, non gli interessa il vegetarianesimo) per rendere la cucina moderna accessibile a tutti. Il lusso, per lui, sta nell’uso di materie prime di grande qualità ma non per forza pregiate. Per esempio i ravanelli, coltivati con caparbietà dai contadini danesi tutto l’anno: cotti “al dente”, vengono ricoperti da una soffice mousse a base di yogurt e da foglie di nasturzio, che richiamano il carattere piccante dei ravanelli e quello agro della mousse: essenziale, ma ricco di sorprese. O ancora il cavolo navone, una grossa rapa negletta anche in Danimarca, ma di cui Puglisi è riuscito a cogliere il potenziale. Con un aggeggio giapponese ne ottiene delle lunghe e sottilissime “pappardelle” (anche il colore è quello) che sbollenta in acqua e burro per dare la grassezza che manca; condisce con un’emulsione di olio, limone e uova di pesce lievemente affumicate, una maionese fusion. Per ultimo sale, origano e una salsa a base di maiale. Non potevano infine mancare le patate, protagoniste dell’alimentazione nordica. Anche in questo caso, un’interpretazione orginale che richiama gli spaghetti. Con un altro aggeggio li trasforma in lunghi fili sottili messi sottovuoto in una soluzione al 3% di acqua e sale per 24 ore: una “cottura” che li rende morbidi ed elastici. Li spennella con burro fuso e alghe (gracilaria) e li arrotola su sè stessi come nidi. Tre minuti di cottura al vapore ed ecco una consistenza e sapore a metà strada tra il crudo e il cotto, davvero interessante. Ma quello che è più sorprendente è il condimento: lattuga di mare (altra alga) sottaceto, burro fuso, aceto di mele e salsa al pecorino ad esaltare i sapori marini. Dove siamo? Somewhere.
LS
 
     
     
     
     
 
Battisti/Delcourt: sinfonie di tuberi
 
     
 
A concludere la giornata delle identità naturali hanno pensato due maestri del genere di casa proprio a Milano. Cesare Battisti del Ratanà per primo, che fondando la sua piccola maison su opzioni povere e anticonformiste, si è posto subito il problema di realizzare piatti tipici tenendo al guinzaglio la filiera grazie alle cascine della zona. Dalle sue mani è uscita una sinfonia di tuberi di stagione, perché i frutti del momento sono anche ciò di cui ha bisogno il nostro corpo nei diversi microclimi. Dalla pastinaca alla scorzonera, dal topinambur alla radice di prezzemolo. Bolliti e passati con il passaverdura della nonna, per valorizzare rusticità e personalità degli ingredienti, vengono mescolati con altre radici affettate e spadellate, per esaltare il piatto con una testura croccante. Più alcune radici amare, del cavolo nero per rievocare testure originarie, un crumble di peperoncino amazzonico e un giro di olio di zucca estratto a freddo.
A seguire una ex collaboratrice di Battisti, nonché allieva di Viviana Varese, l’americana Alice Delcourt, che un anno fa ha aperto la sua Erba Brusca, ristorantino forte di un orto che è un tripudio di frutta e verdura, impiantato con terra fresca nel cuore di Milano, proprio sopra una fonte di acqua sorgiva. Un’oasi nel deserto di smog e grattacieli, dove l’ortaggio passa direttamente dalla pianta alla casseruola senza subire l’oltraggio del frigorifero. Emblema del suo naturalismo una tarte tatin con la pasta brisée a base di Parmigiano anziché zucchero e una guarnizione di barbabietole, zucca, cipolle e topinambur, opportunamente caramellata e rovesciata. Più una crema di rafano e yogurt greco in finitura per mitigare la dolcezza.
AM
 
     
     
     
     
 
La prima del sindaco: Pisapia a Identità
 
     
 

Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia con Claudio Ceroni. Come padrone di casa, Ceroni ha accompagnato il primo cittadino (foto Alessandro Castiglioni) subito a tavola, poi in visita agli stand quindi alla lezione dei marchigiani Moreno Cedroni e Mauro Uliassi.