Monograno Felicetti

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Quando si dà per scontato qualcosa, sia esso un sentimento o un prodotto piuttosto che una persona, si corre sempre il rischio di non accorgersi che qualcosa lì sta mutando, magari spostamenti e variazioni minime, quasi impercettibili nel breve periodo, ma che alla lunga emergono con contorni netti.

Noi di Identità Golose ci siamo accorti negli ultimi tempi di quanto la pasta, una bandiera della cucina italiana, ama anche del costume e dell’economia, fosse bistrattata qua e là lungo la Penisola. «Un piatto di pasta non si nega a nessuno», quante volte lo sentiamo dire, ma al di là del significato della frase in sé, sarebbe bene che quel piatto di pasta fosse migliore di tanti che vengono preparati e serviti ogni giorno. Siamo di certo un popolo di pastaioli, ma da tempo ci accontentiamo. Un po’ diamo per scontato che la nostra pasta è ottima sempre e comunque e un po’ il palato si è abituato alla mediocrità dei prodotti standardizzati da non accorgensi che la vera e autentica qualità ha standard ben diversi.

All’ultima edizione del congresso, lunedì 1 febbraio, si è celebrata la giornata di Identità di Pasta proprio per fare il punto sul Mondo Pasta e per alzare l’asticella alla giusta altezza, sotto la quale non si può parlare di virtù assolute. Alain Ducasse ha stupito molti quando in Auditorium ha detto che non aprirà mai un ristorante di alta cucina in Italia perché è un paese impossibile, dove lui non potrebbe lavorare a certi standard perché noi per primi non ci siamo ancora messi d’accordo sull’esatto tempo di cottura per una pasta al dente. Ha ragione, ma forse questa è anche la forza di noi italiani, solo se sapessimo mettere le nostre verità al servizio di una cucina globale e golosa.

Identità di Pasta è ora anche una newsletter e di questo ringrazio Riccardo Felicetti e il Pastificio Felicetti per la passione che mettono nel lavoro e per la fiducia che ci accordano. Sarà uno strumento per muoversi nel mondo di spaghetti e affini, per confrontare le tesi più diverse e offrire motivi di discussione e di arricchimento.
Paolo Marchi

Testi di Gabriele Zanatta
 

Sulla cottura della pasta: Elio Sironi e Gennaro Esposito

Sulla cottura della pasta esiste una letteratura sterminata, che non affonda le sue radici nel neolitico ma solo perché la scrittura ancora non era stata inventata.

Millenni dopo, dove siamo? A sentire il cuoco del Bulgari Elio Sironi, gli esperimenti sono ancora lontani dal vedere una fine. Scontrandosi con l’ortodossia che prevede formule di cottura scolpite nella roccia, non curanti del tipo di pasta, della qualità del grano o della sua essiccatura - tutti parametri fon-da-men-ta-li – Sironi distingue per esempio tra “al dente” e “alla gengiva”, il passo precedente: «Uno spaghetto che richiede 10 minuti, bollirà in acqua per 6 minuti per essere rifinito nel sugo per altri 4». Ma gli alambicchi ancora sbuffano: ci sono da esplorare gli orizzonti della cottura passiva. «Metto a bollire la pasta a fuoco vivo per 4 minuti, poi tolgo la pentola dal fuoco e lascio che la pasta cuocia dolcemente nell’acqua che perde via via calore. Così l’amido si conserva». Vedi, ma soprattutto, assaggia i suoi Spaghetti al pomodoro, buccia di limone e formaggio di capra (foto Brambilla/Serrani), in pratica un archetipo.

Curioso, allora, sapere che ne pensa Gennaro Esposito della Torre del Saracino a Vico Equense, guardiano da caccia dei metodi di cottura del sud: «Rispetto tantissimo il lavoro di Elio perché la sperimentazione è madre della creatività. La sensazione che io ho è che però ci siano dei forti fondamentali da rispettare e che la pasta lasci poco margine all’esplorazione». Un esempio? «Io sono affezionato al concetto di “al dente” ma non bisogna portarlo all’estremo: “al dente” significa pasta cotta, non cruda, come spesso purtroppo accade». Quanto tempo, allora, a fuoco vivo? «Non ne ho idea: non ho mai cucinato col cronometro accanto in vita mia: la osservo, la assaggio. E quando mi sembra apposto la scolo». La vera rivoluzione da mettere in campo è un'altra: «Far sì che cuochi e pastifici parlino tra loro e lavorino assieme. Oggi non succede mai».
 

Moreno Cedroni e l’irresistibile ascesa della pasta risottata

Come leggiamo qui sopra, è già complesso mettersi d’accordo sui tempi di cottura della pasta, figuriamoci trovare un assioma comune su cui edificare i corollari della pasta risottata. Eppure la pasta cotta direttamente nel sugo, come si fa con il riso per il risotto, miete sempre più consensi d’autore. E quindi l’idea di individuare l’abc della tecnica non è poi così balzana.

C’è Romano, ad esempio, che a Viareggio mette a bollire i paccheri per metà tempo e poi li liscia a lungo in padella. C’è Alfonso Caputo che alla Taverna del Capitano in Penisola Sorrentina, cuoce la pasta agli zucchini, amalgamandola di continuo in una zuppiera con aggiunte centellinate d’acqua calda. Poi c’è lo Spaghetto psichedelico di Moreno Cedroni (nella foto di Alessandro Castiglioni) della Madonnina del Pescatore di Senigallia, Ancona, un archetipo lucidissimo (nonostante il nome), svelato nella prima edizione di Identità Golose (2005). Sono Spaghetti cotti nel sugo di vongole e crostacei, dell’aspetto cangiante e multicolor (da qui l’aggettivo sixties).

«Tutto l’amido della pasta», interviene Cedroni interpellato nuovamente sul tema, «invece che annullarsi in una pentola d’acqua bollente, vive interagendo di continuo col sugo». Il quale però, per non rovinare la pasta, dev’essere per forza di una consistenza molto liquida: «Perché, pummarola in coppa insegna, il concetto è che il sugo debba ritirarsi per farsi cremina. No, allora, allo spaghetto al pomodoro e sì, per esempio, a un aglio, olio e peperoncino, a patto di allungare di continuo la salsa con l’acqua come facevo io con le vongole. L’importante è che la sapidità rimanga molto bassa in cottura». Altrimenti l’insieme diventa troppo salato. Come quello dei peggiori risotti.
 

Christophe Martin, il dissidente delle cocotte in ghisa

A proposito di pasta risottata, quella che vedete in foto qui accanto si chiama Pasta Pot e l’ha modellata nel 2007 il giovane designer Patrick Jouin per conto di Alessi, seguendo un’idea di Alain Ducasse, folgorato a sua volta da quell’antica tradizione dei raccoglitori di olive i quali, spesso sprovvisti d’acqua, cucinavano il sugo con la pasta e pochissima acqua. Come un risotto, appunto. Oggi tutti i cuochi dei feudi di Ducasse (Dorchester a Londra, Louis XV a Monaco, Plaza Athénée a Parigi…) la utilizzano per cuocere la pasta.

Tutti tranne uno: Christophe Martin della Trattoria Toscana della Tenuta maremanna dell’Andana. Come osa? Nessuna violazione del diktat imposto dall’alto: «Semplicemente», ci racconta, «invece che usare la Pasta Pot di Alessi in acciaio, spadello con le cocotte in ghisa de Le Creuset: hanno la stessa funzione ma sono più coerenti al tipo di cucina del nostro locale, di radici piuttosto rustiche». Ma c’è anche un perché affettivo: «mio nonno da bimbo me ne regalò una, fu lì che decisi di cucinare». E uno scenografico: «le pietanze che cucino nelle mie cocotte spesso vengono servite in sala direttamente dalla pentola». La ghisa si presenta meglio, in effetti. «Il metodo risottato è importante perché lega l’amido alla pasta, valorizzando il gusto del grano. Io ci faccio la Calamarata, per esempio, sorta di paccheri con calamari e zucchine. E tutti i tipi di paste corte come rigatoni o strozzapreti: formati piccoli e piuttosto robusti. Spaghetti e paste lunghe è meglio lasciarli alla bollitura classica». Assaggi le Trenette con le seppie al sugo di nero e bottarga di muggine siciliana e capisci perché.
 

Kamut: tutto quello che avreste sempre voluto sapere

Per i cultori del buono (e del salutare), è un piacere sentir parlare così diffusamente di Kamut. Peccato che poi, ad approfondire, pochi sappiano circoscriverne il significato. È per questo che ci rivolgiamo a Riccardo Felicetti del Pastificio Felicetti di Predazzo (Tn) e gran conoscitore del cereale. Cereale? Sorpresa numero uno, Kamut non è un cereale. È un marchio: «È come Nutella e Rimmel», racconta Felicetti, «un marchio brevettato. In questo caso dall’agricoltore americano Bob Quinn allo scopo di preservare il vero cereale, il Khorasan, antenato del grano duro moderno. È un simbolo dell’agricoltura biologica, a difesa delle terre flagellate dallo sfruttamento intensivo dei raccolti, tipico di molte aree rurali degli Stati Uniti. Basti pensare che il quantitativo di raccolto per ettaro ammonta ad appena 15-20 quintali per ettaro, contro i circa 45-50 delle colture intensive».

Quali caratteristiche ha il Khorasan a marchio Kamut? «Intanto, ha una percentuale di proteine molto superiore alla media, variabile naturalmente a seconda del tipo di coltivazione e terreno. Essendo puro, e non risultato di incroci genetici, ha un glutine estremamente più digeribile di quello del grano comune». Più di tutti, conta il gusto: «Quando mio padre Valentino per la prima volta lo assaggiò, fu effetto Ratatouille, il film: si sentì catapultato a sapori e profumi vecchi di 50 anni. La nostra ricerca sul monovarietale è partita da qui». Dieci anni di ricerche dopo, ecco una pasta seduta comoda sulle più alte sfere gastronomiche. Parliamo, al naso, di un insieme di note complesse sostenute da un deciso caseinato. Al gusto, di un dominio di fiori eduli e germogli dolci.

Insomma, «la pasta non è più ancella del sugo ma si riprende il suo ruolo di regina incontrastata del primo piatto», chiude Felicetti. I formati di pasta di grano Khorasan della linea Monograno Felicetti includono spaghetti, linguine e tagliatelle (non all’uovo, solo kamut) e 4 formati di pasta corta: rigatoni, penne rigate, fusilli, chiocciole. Le applicazioni sono infinite e camaleontiche: cambiano pelle a seconda della mano del cuoco.
 

Assenza e Reposo: e il grano si posò sul dolce

È vero, più di riso e risotto, la pasta è regina incontrastata dei primi piatti. Ma certo il suo regno non termina tra l’antipasto e il secondo. Quella è una visione parziale. Perché i cuochi più illuminati ne riconoscono la natura dolce, del tutto compatibile coi dessert.

Fu Corrado Assenza, in tempi non sospetti (Identità Golose 2005), a fare outing: il simile (quella lieve espressione dolce del grano che anima le migliori paste) è attratto dal simile (qualsiasi altro ingrediente dolce circondi la pasta, purché non stucchevole). Allora il cuoco ragusano di Noto cosse gli spaghetti in acqua addolcita al miele ai fiori d’arancio. Poi gli accostò un gelato di ricotta con estratto di miele e origano siciliano fresco, che profumava il piatto con un pomodoro ciliegino candito in uno sciroppo di miele. «Una portata senza tempo», rievoca oggi Assenza, «buona dalla seconda colazione fino a un dopocena la notte». Una filosofia dagli ampi orizzonti: «Quando hai la fortuna di disporre di pasta di grande caratura, il risultato in una composizione dolce può essere fantastico». Attenzione, però, «a non svilire proprio l’espressione dolce, delicata ed elegante del grano in fase di cottura. L’ideale è procedere con una velatura di sale, addolcire con miele - e non saccarosio, che annulla la dolcezza del cereale - Poi occorre accompagnare il tutto con zuccheri non aggiunti ma, anche qui, naturali. Altrimenti parliamo di una moda priva di sostanza gustativa».

Tutte regole che Galileo Reposo, giovane cuoco dolce milanese, conosce benissimo. Per credere, provare al Park Hyatt di Milano i Tagliolini agli agrumi con crema di ricotta e semifreddo alle arance, salsa yogurt e finocchio della foto di Brambilla/Serrani.
 

La Cacio e pepe come non l’avete mai fatta

La Spaghetti cacio, pepe, ginepro e cioccolato di Enrico Crippa, cuoco del Piazza Duomo di Alba (foto Brambilla/Serrani).

Ingredienti
750 g di spaghetti.
Per l’infuso di cacio: 800 g d’acqua, 150 g di formaggio grattugiato.
Per la salsa di cacio: 500 g di infuso, 40 g di tapioca in farina.
Per finire, pepe nero, ginepro tritato, cioccolato apuri 100%, buccia di limone, limone candito.

Procedimento
Per l’infuso: scaldare l’acqua a 90°C e mettere in infusione il formaggio grattugiato per circa 1 ora.
Per la salsa: unire la tapioca all’infuso e farlo ridurre di un terzo.
Per finire: cuocere gli spaghetti e condirli con la salsa di cacio. Cospargere di pepe e ginepro i due limoni e infine il cioccolato.
 

I Rigatoni trafilati in casa con scorfano di Alfonso Caputo

I Rigatoni trafilati in casa con scorfano cotto e crudo nel suo ragù di Alfonso Caputo della Taverna del Capitano a Marina del Cantone, Massa Lubrense (Napoli), presentati a Identità Golose 2010 (foto Brambilla/Serrani).